Baruc: Introduzione



Introduzione al libro del profeta Baruc
A diversi personaggi biblici vengono attribuiti libri che non hanno mai scritto: tra costoro c’è Baruc, nome ebraico che significa “benedetto”. Cosa sappiamo di lui? Anzitutto chi era? Molto difficile rispondere. Potremmo dire che si tratta di un amico, o forse un discepolo, o forse ancora del “segretario” del ben più celebre profeta Geremìa. Ma considerare Baruc semplicemente come lo stenodattilografo di quest’ultimo è riduttivo, si trattava infatti di un sofer, un segretario di Stato, un alto funzionario, sorta di cancelliere moderno. Non solo, il Baruc citato era uno dei massimi esponenti del partito filo-babilonese, nonché vero ispiratore degli oracoli di Geremìa, assieme al quale fu probabilmente condotto in Egitto. Sia come sia, se un tempo avremmo risposto immediatamente che era figlio di Neria, che rimase coinvolto nell’assedio di Gerusalemme per mano del re babilonese Nabucodònosor, e via dicendo, oggi questa risposta è alquanto improbabile: il libro a lui attribuito non è di Baruc. Gli studiosi sono infatti concordi nel ritenere questo libro una pseudonimia, un autore cioè che prende Baruc come modello di scriba fedele, che raccoglie diverso materiale e rielabora quanto accaduto nel 587 a.C. e nel seguente esilio babilonese. Il fenomeno della pseudonimia, frequentissimo nella Sacra Scrittura, non deve però stupirci: implica infatti non solo un autore diverso, ma anche e soprattutto una situazione e dei destinatari diversi.. mira cioè a parlare a tutti e in ogni tempo! Il testo, classificato tecnicamente come deuterocanonico, assente cioè nella Bibbia ebraica (quindi in quella protestante) perché considerato non ispirato, ci è pervenuto nella versione greca della Settanta, in cui è collocato accanto a Geremìa – per il legame già citato – e al libro delle Lamentazioni, erroneamente attribuito a Geremìa stesso. La sua struttura è quadripartita: ad un prologo, che sottolinea l’importanza del viaggio dalla diaspora a Gerusalemme, e fa da cornice storica alle parti successive (1,1-14), segue una liturgia penitenziale, lunga confessione di peccati ritenuti la vera causa della disfatta subìta da Gerusalemme (1,15-3,8). La terza parte è un’esortazione sapienziale: occorre cercare continuamente la sapienza di Dio, che coincide con la legge stessa (3,9-4,4). Infine abbiamo l’annuncio del ritorno dall’esilio, “vangelo” di consolazione e speranza per tutti i dispersi (4,5-5,9), e un’omelia che tratta della lotta agli idoli (6,1-72). Se le prime tre parti vengono attribuite al nostro Baruc, l’ultima è invece accostata a Geremìa. In ogni caso tutti e quattro i testi sarebbero stati riuniti nel II secolo a.C. e redatti in lingua greca. Sintetizzando, trattandosi di uno scritto della diaspora ebraica, che invita gli abitanti di Gerusalemme ad una liturgia con a tema il peccato, sarebbe utile leggerlo ad esempio durante un giorno di digiuno penitenziale. Ma la liturgia cattolica ce lo fa leggere soprattutto nella “madre di tutte le veglie”, in quella notte di Pasqua in cui sentiamo Baruc dirci: «Ascolta, Israele, i comandamenti della vita, porgi l’orecchio per conoscere la prudenza. Perché, Israele? Perché ti trovi in terra nemica.. Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi? ..Se tu avessi camminato nella via di Dio.. Ritorna, Giacobbe.. cammina allo splendore della sua luce..» (3,9-15.32-4,4). L’autore ci offre insomma una spiritualità della diaspora, letteralmente “dispersione”: «a te che sei disperso e frammentato da tanti idoli, da tante preoccupazioni che non sono il tuo Dio – sembra dirci – dico a te: ritorna a Lui, ti sta aspettando..».

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

 

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