Levitico: Introduzione



Introduzione al libro del Levitico
Il Levitico è forse il libro più difficile della Bibbia, sicuramente il più monotono da leggere, quindi il meno letto dai cristiani! Ma perché? Proviamo a capirne le ragioni. Il nome Levitikòn, datogli dalla versione biblica greca, la Settanta, fa riferimento al contenuto: il culto e i suoi addetti, i leviti appunto, discendenti della tribù di Levi, terzogenito di Giacobbe. Divisi in tre grandi classi o famiglie ed esentati sia dal lavorare la terra che dal combattere, vivevano con le decime del Tempio. Dai 25 ai 50 anni svolgevano compiti diversi, a partire dal trasporto dell’Arca. Rappresentavano i primogeniti, come proprietà del Signore, ma al momento della spartizione della Terra promessa a loro non venne assegnato alcun territorio, bensì 48 città, come a dire che il loro luogo era il servizio di Dio. Tra i leviti più celebri conosciamo i due fratelli Mosè e Aronne. Se inizialmente tutti i leviti erano sacerdoti, mediatori cioè tra Dio e l’uomo, con la centralizzazione del culto a Gerusalemme poterono esercitare il loro ministero quasi solamente i discendenti di Aronne (considerato il primo sommo sacerdote, all’origine dunque di ogni sacerdozio), mentre i rimanenti erano considerati ministri inferiori. Da tutto ciò si evincerebbe che il Levitico è il libro dei “preti”, e invece ha molto di più da dirci. Chiamato dagli ebrei Wayyiqrà, “Dio chiamò”, è un libro che ci interroga oggi come non mai. Alcuni studiosi – su tutti Richard King e Pierre Hadot – sostengono infatti che in Occidente si sia passati dal rito alla sua razionalizzazione, generando in tal modo due tipi di cristianesimo: uno dogmatico e razionalistico, l’altro più legato al sentire rituale. Il nocciolo del discorso è dunque il rito, che il teologo Roberto Tagliaferri definisce «come un contenitore che dà senso a ciò che è interno attraverso la performance, che ha valore nel momento in cui la sia compie». Il Levitico, dunque, proprio perché tratta in modo “tecnico” il rito, non poteva essere troppo citato dal Nuovo Testamento, eppure quello che accadeva al Tempio di Gerusalemme fece da sfondo per capire il sacerdozio di Cristo. Senza questo testo non comprenderemmo a pieno, tra l’altro, nemmeno Paolo o la Lettera agli Ebrei. Questo libro, redatto dopo l’esilio babilonese, è il terzo del Pentateuco, e non a caso occupa questa posizione centrale, contiene infatti ciò che fa di Israele una comunità santa, separata dalle altre: l’esperienza dell’esodo ne aveva fatto un popolo libero, ma libero di servire quel Dio al quale aveva scelto di appartenere e che diceva: «Siate santi perché io, il Signore, sono santo». La scrupolosità di tutte le norme nasce dunque da qui. Per quanto riguarda la struttura, il libro è suddiviso in quattro grandi complessi di leggi. La prima è quella dei Sacrifici (cc. 1-7), divisi in tre categorie: il dono (ovvero l’olocausto – dal greco “tutto bruciato, tutto consumato” –, le offerte vegetali e le primizie), la comunione (cioè il sacrificio di pace) e l’espiazione (il sacrificio di riparazione). Il capitolo 16 è in tal senso il cuore del testo, descrivendo la maestosa liturgia dello Yom Kippur (il Giorno del Grande Perdono, in aramaico Yomà, “il giorno” per eccellenza), festa definita da qualcuno come il “Venerdì santo dell’Antico Testamento”, che termina con l’imposizione delle mani del sacerdote sulla testa di un capro vivo e, confessando su di esso tutti i peccati degli israeliti, lo manda – per mezzo di un uomo incaricato – a morire nel deserto, estinguendo simbolicamente il peccato del popolo. Senza questa immagine non potremmo ad esempio comprendere la frase eucaristica «beati gli invitati alla cena dell’Agnello, ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo»! La seconda è la Torah dei Sacerdoti (cc. 8-10), mentre la penultima è quella di Purità (cc. 11-16), concetto molto simile a quello di tabù (parola polinesiana registrata per la prima volta dall’esploratore inglese James Cook nel 1777, entrando poi  nell’inglese col significato di “proibito, vietato”.) che non è tuttavia la purezza (ad esempio di tipo sessuale), ma qualcosa di metafisico: autenticità, sicurezza, realtà profonda. La quarta infine è nota come Legge (o Codice) di Santità (cc. 17-26), della vita e del tempo: «Non ti vendicherai.. Ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Il libro termina con l’appendice del capitolo 27. È dunque di santità che parla, che va tuttavia distinta dalla sacralità: la prima è una dimensione interiore, la seconda esteriore. «Il sacro – afferma Gianfranco Ravasi – quando passa nel profano lo uccide.. il santo invece.. lo feconda.. lo santifica». Il Levitico parte dunque come “libro del sacro” – e il sacro tende anzitutto a definire i confini – per diventare “libro del santo”, termine quest’ultimo che in ebraico è composto da tre lettere, QDS, alla base di altri vocaboli molto importanti: separare, dividere, misurare separando, con riferimento specifico ai terreni. Ma l’origine del termine è accadico (la lingua degli Assiri e dei Babilonesi), dove la radice kuddusu significa “essere luminoso”, e la luce, in tutte le religioni, rimanda a Dio, parola generica che traduce non a caso ciò che splende, che brilla, dunque la luce.                

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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