Della natura, morte, peccato, legge e Grazia (Catechesi)



Tema della catechesi
Della natura, morte, peccato legge e Grazia

Due desideri che hanno relazioni mutue di parentela come due ali invisibili elevano l'anima umana al di sopra del resto della natura. Il desiderio dell'immortalità e il desiderio della verità o della perfezione morale. L'uno senza l'altro non ha senso. La vita è immortale separata dalla perfezione morale, non è un bene, è poco essere immortale. È necessario, essi a Dio, mostrarsi degno dell'immortalità mediante il compimento di tutta la verità. Parimenti la perfezione, soggetta alla corruzione e all'annientamento, non è un vero bene. Un'esistenza immortale senza verità e perfezione sarebbe un eterno supplizio. Ed una giustizia priva di mortalità, una immensa ingiustizia.
Ma se la nostra anima, nella sua parte migliore, desidera insieme l'immortalità e la verità, tuttavia nell'ordine della natura noi siamo realmente privi dell'una e dell'altra. L'uomo lasciato a sé stesso non potrebbe tutelare né la sua vita né la sua dignità morale. Esso non ha la forza di sfuggire alla sua morte fisica e alla sua morte spirituale. Seguendo l'istinto della natura noi vorremmo vivere sempre, ma la legge della natura umana non ci dà una vita eterna e ci limita al solo suo desiderio. La ragione e la coscienza ci spingono alla ricerca del vero, ma la legge della ragione umana e la voce della coscienza ci convincono della nostra falsità, non ci danno la forza di attuare il vero e non ci rendono degni dell'immortalità.
Due nemici irreconciliabili della nostra natura superiore, il peccato e la morte, legati l'un l'altro da un vincolo stretto ed indissolubile, ci tengono in loro potere. Due grandi fatti si oppongono ai due grandi desideri dell'immortalità e della verità, cioè l'inevitabile padronanza della morte su tutte le creature di carne e l'inconcussa padronanza del peccato su tutte le anime. Noi vogliamo solamente elevarci sul resto della natura, ma la morte ci mette allo stesso livello di tutte le creature terrestri e il peccato ci rende peggiori di esse.
Secondo la legge della natura, l'uomo soffre e va alla rovina e la legge della ragione non è in grado di salvarlo. Noi nasciamo e viviamo con molteplici aspirazioni ed esigenze. Noi le troviamo in noi e ci studiamo di soddisfarle. Questa è la via della natura. Ma la natura dell'uomo è triplice ed essa lo provvede di una triplice sorta di esigenze:
1. Animali,
2. Spiritualità o della sua mente,
3. Esigenze del cuore.
Vale a dire anzitutto noi vogliamo osservare ed eternizzare la nostra vita. Poscia noi ci sforziamo mediante il nostro spirito di conoscere o di riprodurre intellettualmente la nostra o l'altrui vita e infine costantemente desideriamo di espandere e migliorare la nostra e l'altrui vita. Noi desideriamo che qualsiasi essere sia nella misura del possibile più degno della sua esistenza. Anzitutto è necessario per noi vivere, poi conoscere la vita e infine riformare la vita.
Le esigenze della natura animale, cioè la conservazione della vita, sono in realtà le più fondamentali, le più urgenti e le più indispensabili perché se non vi fosse la vita non vi sarebbe niente e nessuno da conoscere e da emendare. Le esigenze ed aspirazioni animali si riducono a due principali:
1. Al nutrimento per il temporale sostentamento della vita nell'individuo,
2. Alla propagazione o moltiplicazione onde perpetuare la vita della specie.
Il fondamento della vita animale è il cibo e il suo fine la propagazione. Se l'individuo non si nutrisce esso non potrebbe propagarsi, se non si propagasse non vi sarebbe ragione per nutrirsi. Il problema vitale dell'animale è risolto quando esso ha dato alla luce ed allevata la sua prole. Il resto della sua esistenza gli serve unicamente come mezzo per questo fine. Tutte le generazioni e nelle generazioni tutti gli individui sussistono unicamente per dar la vita ai loro posteri e questi sussistono unicamente per procreare la generazione che li seguirà. Ciò vuol dire che le singole generazioni trovano il significato della loro vita solo nella generazione seguente. In altri termini la vita di una singola generazione è incomprensibile e se la vita di una singola generazione è incomprensibilelo stesso è da dirsi della vita di tutte. Questa esistenza incomprensibile si chiama la vita della specie. Ma possiamo noi dire che realmente questa sia una vita? Se le singole generazioni sussistono solamente per morire al sorgere di una nuova, la quale a sua volta si aspetta una simile catastrofe, e se la specie vive solamente in questa serie di generazioni che incessantemente corrono alla rovina, la vita della specie è una morte costante e la via della natura è una evidente bugia. Lo scopo dei singoli è riposto in qualche cosa d'altro, nella posterità, e quest'altro a sua volta è senza scopo ed il suo scopo è in un altro e così si procede all'infinito. Non troviamo in nessuna parte uno scopo reale, tutte le esistenze sono senza scopo e incomprensibili, come una tendenza che non si può soddisfare. La necessità della specie è come una necessità di vita eterna, ma invece di vita eterna la natura ci dà una morte eterna. Niente vive nella natura, tutti gli esseri si sforzano solamente di vivere e perennemente muoiono.
Perciò quando si dice all'uomo, soddisfa le esigenze e gli allettamenti della natura, questa è l'unica via per essere felici, tali parole non hanno senso, perché la prima e fondamentale esigenza, quella di tutelare la propria esistenza, di vivere perpetuamente, rimane insoddisfatta dalla natura. Quanto al quesito perché noi viviamo, qual è lo scopo della nostra vita, si risponde che la vita in sé stessa nasconde il suo scopo, che noi viviamo per la vita stessa, anche perché realmente ciò che è vita noi non troviamo in nessuna parte. Solamente troviamo dappertutto un impulso, un passaggio a qualche cosa d'altro e solamente nella morte noi scopriamo la costanza e l'invariabilità.
La potenza della morte che gravita al di sopra della nostra vita animale e trasforma questa in un vano conato non è qualche cosa di accidentale. Il nostro spirito che espande la conoscenza sperimentale della nostra propria natura in una scienza sulla natura di tutto il creato, ci dimostra che la morte domina non solo sul nostro corpo, ma sul corpo dell'universo. Il regno della natura è il regno della morte. Le scienze che studiano la vita presente e passata del globo terrestre, geologia, biologia, accertano che non i soli individui muoiono, specie intere di viventi sono anche soggetti alla morte. Esse ci raccontano l'estinzione di intere organizzazioni e classi del regno animale e vegetale.
La scienza che studia la natura dei corpi celesti, astronomia, ci conduce a questa conclusione che mondi interi e categorie di mondi, che sono derivati da una materia mondiale amorfa ed invisibile, di nuovo si frantumano e si disseminano nello spazio e prima che un simile fato distrugga il nostro sistema solare, la Terra e gli altri pianeti svolazzeranno intorno al Sole che si spegne, con le loro masse ghiacciate e senza vita. Infine, la scienza che tratta delle leggi comuni e delle proprietà dei fenomeni sensibili, fisica, in una delle sue più interessanti generalizzazioni, arriva alla conclusione che tutti i fenomeni del mondo sono unicamente specie varie di movimento, determinate dall'asimmetria di quel movimento molecolare dei corpi che si appella calore. E poiché questo incessantemente tende ad appianarsi, nel momento del suo finale assetto, tutti i fenomeni del mondo inevitabilmente cessano e tutto l'universo si trasforma in una forma di essere indistinta ed immobile.
Soddisfacendo alle esigenze della nostra natura animale, noi riceviamo alla fine la morte. Soddisfacendo alle esigenze del nostro spirito e riconoscendo tutti gli esseri, noi veniamo ad apprendere che la morte è la conclusione finale di qualsiasi creatura e che tutto l'universo è unicamente il regno della morte. Sforzandoci di vivere, noi andiamo incontro alla morte e desiderando di conoscere la vita, noi conosciamo la morte. La natura sensibile ci conduce verso la morte e lo spirito può solamente accertare questa morte come una legge universale del creato. La nostra esperienza della vita e le ricerche scientifiche dello spirito ci rivelano una sola cosa, l'instabilità della nostra vita. Ed essa è instabile non solo perché soggetta alla morte e non ha un'esistenza duratura, ma anche perché è indegna di sussistere. Non solamente noi andiamo alla rovina, ma roviniamo anche gli altri. La nostra vita non è solamente un'illusione, ma anche un male. Pur desiderando di vivere, non solo noi moriamo, ma uccidiamo gli altri esseri. Noi non possiamo conservare la nostra vita, ma noi possiamo distruggere un'esistenza a noi estranea. Ed in realtànoi la distruggiamo, nutrendoci di un'altra vita. E il motivo per cui ciò facciamo, vale a dire la conservazione della nostra vita, in sostanza è il... Ciò facciamo, vale a dire la conservazione della nostra vita, in sostanza è illusorio. La nostra vita, infatti, non è assicurata per un solo istante e con l'andar del tempo necessariamente perisce, per quanto siano numerose le altrui vite che sacrifichiamo per la sua salvezza. In tal guisa, la conservazione della nostra vita animale ci costringe, alla fin fine, a commettere un inutile massacro.
Più ancora, nutrendosi di altri organismi, l'uomo animale si dà in balia delle forze strane della natura, del cieco istinto sessuale, che lo costringe a sacrificare sé stesso per l'illusoria conservazione della vita della specie, mediante la procreazione o moltiplicazione. Se per civarci noi sacrifichiamo l'altrui vita, a fine di sostentare la nostra, nel nostro caso, vale a dire nell'atto procreativo, noi diamo la nostra vita per produrre un'altra a noi estranea. E se noi potessimo in tal modo produrre una vera vita, cioè una vita alla quale avesse la forza di sussistere e fosse degna dell'esistenza, allora il nostro sacrificio per la specie avrebbe senso e dignità morale.
Ma poiché, mediante la propagazione, noi possiamo solamente produrre una vita cattiva e caduca, qual è la nostra, e riusciamo solamente a propagare l'inganno ed il male, abbandonandoci all'istinto o impulso della specie, in ultima analisi, noi commettiamo unicamente un inutile suicidio. La passione sessuale inganna il cuore umano col miraggio dell'amore. Ma essa non è amore, bensì una falsa sembianza dell'amore. L'amore è l'intima indissolubilità e l'unità spirituale di due vite. E la passione naturale tende solamente a questo, senza tuttavia raggiungerlo mai, perché il suo risultato è un certo che di esterno, un certo che di separato dai due generanti, che può essere ad entrambi totalmente estraneo e più ancora ostile.
Il male e l'inimicizia nella nostra vita naturale sono completamente attivi. L'amore, al contrario, è in essa un'illusione. E perciò il nostro cuore, che cerca una vita degna, cioè una vita secondo l'amore, deve condannare la nostra natura e tutte le sue vie ed orientarsi verso un altro sentiero. Infatti, se noi riconosciamo la via della natura, vale a dire la soddisfazione dei nostri istinti ed esigenze animali, come la legge finale della nostra vita, noi giustifichiamo legalmente l'omicidio ed il suicidio e ci riconciliamo per sempre col regno della morte.
Vivi secondo la natura vuol dire uccidi te stesso e gli altri. L'uomo animale, per forza, si acconcia a questa sorte. Ma il cuore umano non può riconciliarsi con essa in un modo decisivo perché nasconde in sé stesso il pegno di un'altra vita. L'uomo non solo comprende col suo spirito l'insufficienza della via della natura come una via che conduce alla morte e all'annientamento, ma nella sua coscienza riconosce anche questa via come un peccato, come un certo che da non farsi. Questo concetto del peccato o d'illecito è un concetto puramente umano, un concetto al di sopra della natura. Tutta la nostra moralità riposa su di esso.
Nel momento in cui l'animale si muove verso quel punto verso il quale l'impulso naturale della vita lo spinge e lo alletta, l'uomo può arrestare nella sua mente lo slancio della natura animale e decidere da sé stesso se egli sia tenuto di obbedirli oppure no. Quando l'animale tende unicamente a vivere, nell'uomo si rivela la volontà di vivere, il come si deve vivere. Nella sfera della nostra attività, oltre il quesito dell'animale, ho io il desiderio di agire in tal modo e lo posso fisicamente? Sorge il quesito dell'uomo, debbo io far questo?
In tal guisa, le esigenze della nostra natura sono impotenti contro gli ostacoli naturali esterni che limitano internamente l'uomo stesso col dovere della coscienza. Per virtù della nostra natura animale si rivela in noi la tendenza ad agire contro la coscienza obbedendo ai soli impulsi sessuali. Se in noi fosse solamente lo stimolo della natura, questo non sarebbe in sé stesso né cattivo né buono, ma, come avviene degli animali, ci apparirebbe un semplice fatto naturale. D'altra parte, se in noi esistesse solamente una tendenza morale, questa, non incontrando nessun ostacolo interno, agirebbe unicamente come una semplice forza ingennita dell'uomo. In tal caso non vi sarebbe nemmeno una questione morale.
Ma quando si urtano due opposti impulsi, sorge allora il problema morale e l'uno e l'altro ricevono un valore morale. Allora la voce della coscienza, di fronte alla natura che l'avversa, si chiama legge. E lo stimolo animale, in quanto contraddice alla legge, si chiama illegalità o peccato. In tal modo il peccato è generato dalla legge. Illegalità o peccato. Perché la legge produce l'ira, ma dove non c'è legge non c'è neppure trasgressione. Ad Rom 4.15 Anche prima della legge il peccato era nel mondo, ma il peccato non è imputato quando non vi è legge. Ibidem 5.13
In tal modo l'uomo abbandona la via semplice della natura e si inoltra nella duplice via della legge. Ma poiché la via della natura conduce alla morte naturale, parimenti la via della legge conduce alla morte spirituale. Ci fu un tempo nel quale, essendo senza legge, vivevo, ma avvenuto il comandamento il peccato prese vita ed io morii, e ne risultò che il comandamento, il quale doveva darmi la vita, mi cagionò la morte. Ibidem 7.
La legge che condanna gli stimoli della natura non li cambia con altri e li lascia nella loro forza primitiva. Se io voglio qualche cosa e la legge dice che ciò che io voglio è male, io tuttavia non cesso di volere. La legge si aggira unicamente intorno alle manifestazioni esterne della mia volontà, per esempio nell'atto del peccato, e dichiara non uccidere, non offendere, ecc. La radice tuttavia del male, cioè l'impulso cattivo che genera gli atti cattivi, non è soppresso dalla legge, anzi è risvegliato e reso cosciente.
Io non avrei conosciuto il peccato se non fosse stato per la legge. Per esempio io non avrei conosciuto la concupiscenza se la legge non mi avesse detto non concepire. Poi fu il peccato, che cogliendo l'occasione offertagli da cotesto comandamento, fece nascere in me ogni sorta di concupiscenze, perché senza la legge il peccato non esiste. Rom 7.
La legge che condanna la natura non rinnega questa, ma non dà niente di positivo. Essa dimostra ciò che io non devo fare, ma ciò che devo fare lo tace. Anche se fosse possibile darle una forma positiva, per esempio porgi aiuto a tutti, non vi sarebbe in questo nessuna indicazione positiva intorno a ciò che bisogna fare a fine di aiutare tutti veramente e realmente.
La coscienza del dovere morale, quando si risveglia nell'uomo, lo strappa dal torrente della vita, della natura, e lo lascia solo e senza aiuto. La nostra coscienza giudica la natura, distingue il bene dal male, ma non dà la forza di cambiare e riformare la natura, di dar la vittoria al bene e la sconfitta al male. Noi sappiamo di fatti che la legge è spirituale, ma io son carnale, venduto e soggiogato al peccato, poiché io non so quello che faccio. Non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio.
Ma se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona. E in questo caso non sono più io che lo faccio, ma lo fa il peccato che abita in me. Di fatto io so che in me, vale a dire nella mia carne, non abita nulla di buono, perché è vero che in me c'è la volontà di fare il bene, ma la forza di compierlo non c'è. Poiché il bene che voglio non lo fo, ma il male che non voglio, ecco quello che fo.
Ora, se faccio quel che non voglio, non sono più io che lo faccio, ma lo fa il peccato che abita in me. Io mi trovo dunque sotto questa legge, che quando voglio fare il bene, il male è subito là vicino a me. Poiché io mi diletto nella legge di Dio, secondo l'uomo interiore, ma vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e mi fa schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Così dunque io stesso con la mia mente sono servo della legge di Dio, ma con la carne sono servo della legge del peccato. Rom 7.
In tal modo alla sofferenza naturale della nostra natura mortale si aggiunge la sofferenza morale, un dualismo interno e la condanna di sé stesso. La coscienza del dovere per sé stessa non ci dà la forza di compierlo. In ciò è riposta tutta la difficoltà del problema morale. Se viene l'uomo una natura corrotta, e la nostra natura la cui ultima parola è omicidio e suicidio è corrotta nella radice intima del suo essere, allora, benché l'uomo riconosca la sua corruzione, la coscienza di essa non gli comunica un'altra natura.
La natura peccatrice è per noi un certo che di dato, di inseparabile da noi. L'uomo stesso, nella sua ragione e coscienza, giunge al riconoscimento di questa sua tendenza al peccato, egli condanna e rinnega la sua natura. Ma questa sua negazione non oltrepassa i limiti del pensiero e perciò si rivela falsa. Il pensiero, infatti, che condanna la realtà, non è in grado di sopprimerla e si rivela privo di forza, di abilità, di fede in sé stesso e in questo senso è falso. E per questo, a fine di cambiare e riformare la nostra natura peccaminosa e riformarla effettivamente, realmente è indispensabile che si riveli a noi alcunché d'altro, alcunché di reale e perciò capace di agire, vale a dire il principio di un'altra vita al di sopra di quella che viviamo, cioè la vita della natura cattiva. Da sé stesso l'uomo non può creare il principio di questa nuova vita migliore dal nulla. Esso deve sussistere fuori della nostra volontà, noi dobbiamo ricevere questa nuova vita. Nello stesso modo che la vita cattiva della natura non è creata dall'uomo, ma gli è data dal mondo, così la nuova vita della salvezza gli è comunicata da colui che è sopra il mondo e migliore del mondo. Questa nuova vita del bene o della salvezza che si largisce all'uomo si chiama per tal motivo grazia. La grazia è la salvezza o il bene che non si concepisce solamente dall'uomo, ma che realmente gli si offre.
E poiché la nostra natura non è in sé stessa un bene e la legge morale della nostra ragione, quantunque buona nella sua qualità ideale, è tuttavia impotente a darci il bene nella realtà, ne segue essere necessario o separarsi interamente dal bene o riconoscere che esso esiste indipendentemente dalla nostra ragione, che esso esiste di per sé stesso e da sé stesso si dona a noi. Questo bene esistente, cioè l'essere che per sé stesso possiede la pienezza del bene e della fonte della grazia, è Dio. Noi sappiamo che fine della nostra natura è la morte. Il pungiglione della morte è il peccato e la potenza del peccato deriva dalla legge. Conoscendo questo, noi siamo tenuti al di sopra delle vie della natura e della legge a creare una terza via, quella della grazia, e a riconoscere la fonte della grazia, il Dio.
Al fine tuttavia di mantenerci realmente nel sentiero della grazia, non basta la conoscenza dello spirito, è necessaria anche l'azione, cioè il movimento interno della volontà. L'uomo deve interiormente muoversi per ricevere in sé la grazia e la forza di Dio. Questo movimento da parte dell'uomo o la sua azione interiore percorre tre stadi:
1. Prima l'uomo deve provare l'avversione dal male, sentire e riconoscere il male come peccato.
2. Secondo, l'uomo deve farsi interiormente violenza per allontanare da sé il male e strapparsi da esso.
3. Terzo, conscio che non saprebbe emanciparsi dal male con le sue proprie forze, egli deve rivolgersi all'aiuto divino.
Ne segue che per ricevere la grazia da parte dell'uomo si richiede l'avversione a riguardo del male morale come peccato, uno sforzo per emanciparsi da esso e la conversione a Dio. Qui non si afferma che questo processo iniziale debba compiersi con le energie dell'uomo stesso senza l'aiuto divino. In genere il problema metafisico delle relazioni fra la volontà umana e la cooperazione divina non è da risolversi in queste pagine, ma se ne mostra lo sviluppo da quel lato interno nel quale la personalità umana, per via di esperienza, vale a dire in un modo sensibile per sé medesima, vi prende parte. Da questo lato è fuori di dubbio che la grazia non agisce su quell'uomo il quale interiormente non si strappi al peccato e non si rivolga a Dio. Il caso di una conversione fulminea come quella di Saulo non contraddice affatto al nostro asserto, perché Saulo perseguitava i cristiani non già per affetto al male, ma per un pio zelo che attirò su di lui l'azione della grazia del Cristo.
Tutto il bene già si trova in Dio, altrimenti egli non sarebbe l'essere perfetto, vale a dire non sarebbe Dio. Per conseguenza l'uomo che cerca il bene non deve produrre niente di nuovo. Esso deve unicamente aprirsi una via libera per la grazia, eliminare quegli ostacoli e barriere che allontanano noi e il nostro mondo dal bene per essenza. Ma la principale reale barriera che ci chiude il bene per essenza e la felicità non è riposta nella natura esterna. La natura esterna è passiva, essa non agisce da sé e per conseguenza non può di per sé separarci da Dio e privarci della sua luce divina. La barriera si trova solamente in quell'essere il quale si sforza di agire da sé, secondo il proprio arbitrio e scelta, vale a dire si trova nell'uomo stesso. L'animale agisce secondo il suo cattivoumore, che non è un suo prodotto, perché le creature non si sono assoggettate spontaneamente alla vanità, ma secondo il volere di chi li ha assoggettò. L'uomo, al contrario, oltre il cattivo umore o carattere che gli è comune con gli animali, può e ci andìu agire ed agisce in virtù di cattive decisioni e di cattivi principi posti da lui e sgorganti dalla sua volontà. Noi sappiamo che non vi è bene nel mondo perché tutto il mondo è ingolfato nel male. Non vi è bene nello stesso uomo perché ogni uomo è mendace. Nessuno è giusto, nessuno è ragionevole, nessuno opera per la sua salvezza, nessuno assolutamente.
Perciò, tutte le volte che l'uomo agisce per suo impulso o impulso del mondo, cioè conforme ai dettami del mondo, che è ingolfato nel male, tutte le volte che l'uomo si comporta secondo sé stesso o secondo il mondo, con questo suo procedere, separa sé stesso e il mondo da Dio. La fonte di tutti gli atti umani è la volontà dell'uomo. Ne segue che la barriera, la quale lo separa dal bene per essenza o da Dio, è la volontà umana.
Ma in virtù di questa stessa volontà, l'uomo può decidersi a non agire per suo impulso o impulso del mondo, a non comportarsi secondo la volontà sua o quella del mondo. L'uomo può decidere, io non voglio secondo la mia volontà. Questa rinunzia a sé stesso, questo cambiamento della volontà umana, è il suo più grande trionfo. Perché in tal caso, l'uomo liberamente si rinnega, con la sua volontà si strappa alla sua volontà. Con la violenza non si può ridurre l'uomo a cambiare la sua volontà. Certamente lo si può costringere ad astenersi da una cattivazione, con la paura o la violenza, ma non lo si può indurre ad emanciparsi dalla sua cattiva volontà, che è un movimento interno, non sottomesso alla violenza esterna.
Solamente con la volontà può l'uomo separarsi dal male, e solamente con la volontà egli può riconoscere il bene per essenza, o Dio. La fede in Dio, essendo un'arcana, reciproca relazione fra la divinità stessa e l'anima umana, esige la cooperazione diretta alla volontà umana. Senza la sua volontà, l'uomo non potrebbe credere in Dio. Se non vogliamo credere, non potremo credere. Dio non vuole essere un fenomeno esterno che contro il nostro volere a noi si aggrappi. Dio è la verità interna, la quale moralmente ci obbliga ad accettarla.
Credere in Dio è la nostra obbligazione morale. L'uomo può non compiere la sua morale obbligazione, ma in questo caso inevitabilmente perde la sua morale dignità. Credere in Dio significa riconoscere che quel bene al quale rende testimonianza la nostra coscienza e che noi cerchiamo nella nostra vita e che non ci è dato né dalla natura né dalla nostra ragione, quel bene, ripeto, è tuttavia un bene che sempre è, che sussiste al di fuori della nostra natura e della nostra ragione. Un bene che è in qualche cosa esistente di per sé.
Senza questa fede saremmo indotti a concedere che il bene sia una fallace impressione o una finzione arbitraria dello spirito umano, cioè che non vi sia in esso niente di realmente esistente. Moralmente però noi non possiamo concedere questo, perché noi stessi come esseri morali e tutta la nostra vita abbiamo un significato e valore solo mediante la fede nel bene reale, vale a dire nel bene come verità. Noi dobbiamo credere che quel bene esiste da sé, che esso è la verità per essenza. Noi dobbiamo credere in Dio. Questa fede è un dono di Dio e nello stesso tempo un nostro atto libero e personale.

 

Fondamenti spirituali della vita di Vladimir Sergeevic Solov'ëv
Il primo capitolo introduce ai fondamenti spirituali della vita dell’uomo. L’uomo cerca da sempre la vita, ma la vita gli è negata. L’uomo desidera l’immortalità, ma la morte regna sulla natura. E anche quando l’uomo e la donna generano vita nuova non fanno altro che procastinare il grande inganno: tutto è destinato a morire. L’uomo come l' animale lotta fino alla fine per restare in vita e pur di vivere uccide. Ma al contrario degli animali sente nel suo cuore che non è giusto. Così la coscienza elabora la legge, che ci impedisce di far quello che la natura ci spingerebbe a fare. E nata la legge, vien svelato il peccato. Non avrei conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza se non mi fosse stato detto: non desiderare. Ora il peccato non può essere vinto dalla legge che semplicemente mi dice cosa non devo fare e non mi da la forza per combatterlo. E neppure dentro di noi troviamo gli strumenti per vincere. Solo da fuori viene la vittoria, per questo la grazia vince il peccato.

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