Cantico dei cantici 2,8-14 con il commento di Elvis Spadoni



Dal Cantico dei cantici
Ct 2,8-14 

Testo del brano
Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. L’amato mio somiglia a una gazzella o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia dalle inferriate. Ora l’amato mio prende a dirmi: «Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole». 

 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Libreria suoni di Garage Band

Meditazione
Elvis Spadoni

Meditazione
Questo brano del Cantico dei Cantici, libro che celebra l’amore sentimentale ed erotico fra due amanti, si apre che la voce della donna che sente arrivare il suo amato. Ella sente una voce, un rumore: l’amore infatti arriva da fuori, come un dono. Non è qualcosa di prodotto o costruito da noi ma viene dall’esterno. É una “manifestazione”, una “epifania”. Nel tempo di Natale che si avvicina quella voce diventa il pianto di un bambino che rompe il silenzio della notte. Ma qui l’amato è adulto, cammina con le sue gambe, è paragonato a un cervo che balza sui monti e le colline. Questo animale era considerato sacro presso le antiche divinità dell’amore, mentre i monti e le colline sono il tipico scenario del deserto di Israele, che non è un deserto di sabbia ma di rocce. Per questo «cervo che salta sui monti» è una allegoria dell’amore personificato che ha scelto Israele: è il Dio di Abramo, il Dio di Mosè, colui che ha scelto di amare questo preciso popolo. L’amore romantico cantato nel Cantico dei cantici è testo biblico perché metafora dell’amore fra Dio e il suo popolo e, per i cristiani, anche del legame fra Cristo e ogni uomo. Come dice il testo, però, un muro divide quest’uomo dalla sua amata. Questo rapporto è difficile, l’uomo non è una facile conquista e Dio non è così vicino come vorremmo: delle inferriate dividono i due amanti. L’incontro fisico non è possibile e così l’amato utilizza la voce, quella stessa voce che aveva dato avvio al brano e che, sola, può attraversare gli ostacoli. E ora la voce si fa parole, si fa Parola. Dio non arriva con la potenza della sua presenza fisica ma con il sottile e insinuante suono della sua voce, che supera le barriere e raggiunge il nostro cuore. Ed è una voce così sottile e intima che non potremmo ascoltarla se non fosse l’amata a ripetere le parole che egli le rivolge. É lei che si fa eco di quel suono e lo condivide con noi. L’amore si fa carico delle parole dell’altro e le ripete, gli dà voce, permette di udirle meglio. Quanti suoni spirituali, quante parole sussurrate nel silenzio dallo Spirito chiedono a noi la nostra voce per essere udite anche da altri, diventare cioè una cassa di risonanza dell’amore che si vuole fare parola? Le parole dell’amato che udiamo grazie all’amata sono parole di speranza e di risveglio. Esse invitano la donna a vedere la primavera che esplode intorno a lei e di seguirla in questa fioritura. Essa, paragonata a una colomba che si ripara nelle rocce, è invitata a librarsi in volo, ad uscire dalla sua casa. Il termine «vieni», con cui l’amato chiama la donna, non va inteso come un “vieni qui, raggiungimi”, ma come un “vieni fuori, esci”. L’amore è innanzitutto un atto di liberazione, non di conquista. Porta l’altro alla libertà. L’amore vive anche nella distanza: quella che la voce sa coprire e quella a cui l’amato viene chiamato: la distanza di chi rimane libero anche quando lo sentiamo “nostro”. L’amato vuole liberare l’amata dalla casa-prigione ancor prima di unirsi a lei. E infine questa voce, che non ha voce se non quella che l’amata gli dà, a sua volta chiede all’amata di fare sentire la sua voce «soave», in una danza di echi amorosi, dove ogni voce rivive nell’altro e lo sprona a sua volta a parlare, ad esprimersi, ad aprirsi al mondo come un fiore in primavera. Una voce simile fu udita anche da Lazzaro, quando giaceva nella tomba. La distanza che separa gli uomini dai vivi fu vinta dalla voce dell’amico Gesù che lo chiamò. «Lazzaro, vieni fuori». E il morto si alzò e uscì spronato da questo richiamo alla libertà. E così, come in queste pagine del Cantico, anche fuori dalla tomba di Betania, questa stessa voce liberatrice si ripresenta: «scioglietelo dalle bende e lasciatelo andare». Queste bende sciolte dal corpo di Lazzaro mostrarono di nuovo il suo volto, liberarono di nuovo la sua voce, sciolsero ancora i suoi passi.

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