Libro di Tobia: Introduzione



Introduzione al libro di Tobia
«Libro della storia di Tobi, figlio di Tobièl, figlio di Ananièl..», questo l’incipit di una storia meravigliosa, quella di Tobìa (in ebraico “Jhwh è buono”), entrato a far parte della sola Bibbia cattolica forse per la sua redazione tardiva, è infatti databile intorno al 200 a.C., anche se l’anonimo autore ha retroiettato la vicenda tra l’VIII e il VII secolo a.C., e questo per conferirgli maggior verosimiglianza e autorità. Ma di cosa si parla esattamente in questo libro, e chi è Tobìa? Suddivisibile grosso modo in tre parti (1,1-3,17; 4,1-6,9; 7,1-11,20) seguite da un paio di epiloghi (12,1-14,11 e 14,12-15), il libro – ispirato alla Storia di Achikar il Saggio e appartenente al genere sapienziale – è giunto a noi in tre forme diverse: una lunga, una breve e quella della Volgata latina, tradotta da san Girolamo dall’originale aramaico e utilizzata dai cattolici nella liturgia. Nel racconto abbiamo anzitutto due famiglie giudee imparentate tra loro ed entrambe deportate, una a Ninive, nell’attuale Irak, e l’altra ad Ecbatana, in Iran. Il protagonista della prima viveva con i genitori Anna e Tobi; quest’ultimo, dopo la festa ebraica di Pentecoste, dopo aver inviato il figlio ad invitare qualche povero al pranzo, e dopo aver seppellito un cadavere.. insomma, dopo aver compiuto opere buone e meritorie, proprio mentre stava riposando in terrazza è vittima di un fatto per certi versi comico, fantozziano oseremmo dire: dei passeri fanno i loro “bisogni” proprio sopra di lui, così gli escrementi gli cadono sugli occhi rendendolo cieco! Dopo l’ennesima lite con la moglie, evidentemente irritata per l’accaduto, questa gli rimprovera l’ingiustizia di cui lo sta rendendo vittima il suo Dio: «Dove sono le tue elemosine.. le tue buone opere.. lo si vede da come sei ridotto» (2,14). L’accusa manda in tilt Tobi, che arriva ad invocare la morte.. Contemporaneamente, nella seconda famiglia anche la giovane Sara invoca la propria fine e tenta di impiccarsi: il demonio Asmodeo infatti le ha ucciso i suoi sette mariti, e tutti prima che si unissero fisicamente a lei. A rimproverarle l’accaduto è nel suo caso la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti.. vattene con loro..». Ma è proprio in questo momento estremo che Dio ascolta ed esaudisce – a suo modo – le preghiere di Tobi e Sara. Gli insegnamenti offerti da questo libro, in particolare indirizzati ai fratelli esiliati che si trovano sparsi per “il mondo”, sono numerosi, anzitutto la fiducia nella provvidenza divina, che si avvale dei suoi messaggeri, gli angeli. Se nell’Antico Testamento con la parola angelo si intende genericamente l’intervento concreto di Dio, ecco che, dopo l’esilio babilonese, gli angeli si moltiplicano, vengono chiamati per nome e assegnati ad una funzione particolare, contenuta nel nome stesso. La figura di Raffaele – in ebraico “Dio guarisce” – è in tal senso emblematica: nascosto sotto le sembianze di un giovane che gli offre i suoi servizi, è compagno di viaggio di Tobìa. E noi, ci accorgiamo dei vari Raffaele che ci affiancano nel cammino della vita? Vediamo cioè la presenza di Dio, nascosta in coloro che ci mette accanto per proteggerci e guarirci? Altro insegnamento decisivo è quello delle “opere buone”, tra cui il seppellimento dei morti, settima ed ultima opera di misericordia corporale della tradizione cattolica, tutte splendidamente rese dal Caravaggio nel capolavoro situato oggi al Pio Monte della Misericordia di Napoli; ma anche l’elemosina, così importante da essere nell’Islam uno dei cinque “pilastri”, cioè colonne sulle quali si basa questa religione; e poi ancora la preghiera, che in questo caso consiste fondamentalmente nel benedire Dio in quanto giusto, attributo divino decisivo nell’ebraismo. Tornando ad Asmodeo (derivato probabilmente dalla contrazione dell’iranico Aeshma Daeva, il dio della collera, per cui significa “colui che distrugge, che fa perire”), è significativo che «l’odore del pesce respinse il demonio, che fuggì verso le regioni dell’alto Egitto. Raffaele vi si recò all’istante e in quel luogo lo incatenò e lo mise in ceppi» (8,3), e che «il fiele (la bile) del pesce» (11,11-13) applicato sugli occhi di Tobi, ridia a quest’ultimo la vista. È insomma il pesce, animale che viene dall’acqua (simbolicamente luogo sia della vita sia della morte), a liberare Sara da Asmodeo e Tobi dalla sua cecità! Il demonio viene relegato in Egitto, ancora luogo-memoria della cattività del popolo d’Israele, identificato quindi con l’inferno; mentre Tobi può rivedere l’amato figlio. Pesce che, in greco, si dice ichthys, uno dei principali cristogrammi, cioè combinazioni di lettere in lingua greca o latina che simboleggiano Gesù. Solo per citarne alcuni: il titulus I.N.R.I. che capeggiava sulla croce, acronimo latino di Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum; il greco Chi Rho, ovvero l’equivalente delle nostre lettere X e P, le quali incrociate formano un simbolo presente ad esempio in diverse chiese o sulle vesti di chi celebra l’Eucarestia; l’IHS, nome di Gesù diffuso da san Bernardino da Siena; e l’ICHTHYS, appunto, acronimo greco che in italiano traduce “Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore”. Ma le vicende del libro di Tobìa parlano soprattutto della cosiddetta retribuzione temporale, concetto sul quale da sempre l’essere umano si gioca la sua visione di Dio, “il giusto” per eccellenza, è infatti anzitutto di giustizia che si sta parlando. Se il concetto di retribuzione ha le sue radici nel rapporto tra padrone e servo, e questo fin dalla notte dei tempi, già all’inizio della storia della salvezza Dio promette la sua mercede ad Abramo (Gn 15,1), e tale “mercede in proporzione al lavoro” prosegue fino alle ultime righe della Bibbia: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere», dice l’ultimo capitolo dell’Apocalisse (22,12). È però solo con Gesù che la retribuzione trova senso e fine: «il Dio di Gesù Cristo, risuscitando suo Figlio – afferma il teologo Claude Wiéner – dimostra di essere giusto.. scopo del cristiano – prosegue – è (infatti) Cristo (stesso e).. sua mercede è l’eredità divina». Non c’è dunque alcun contrasto tra retribuzione e amore, «perché – conclude – l’amore stesso vuole la retribuzione».                        

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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