Libro di Giuditta: Introduzione



Introduzione al libro di Giuditta
La presunta storia di Giuditta si svolge sotto il regno di Nabucodonosor (che regnò a Babilonia tra il 604 e il 562 a.C.), ma il libro è stato scritto molto più tardi, verso la fine del II secolo a.C., l’epoca segnata dalla cosiddetta rivolta dei Maccabei. Ma perché tale storia è presunta? Perché all’interno del testo compaiono difficoltà di vario tipo, che portano a pensare come il racconto non sia preoccupato di riportare una fedele narrazione storica, quanto piuttosto ad illustrare un insegnamento. Ciò non toglie che all’origine della tradizione narrativa ci sia un fatto reale. Giuditta – che in ebraico vuol dire “la Giudea” – probabilmente non è mai esistita, o meglio, è esistita nelle tante “Giuditte” che nella storia si sono fatte carico anche della debolezza dei maschi! Rappresenta in sintesi tutte le donne di Israele: è vedova (di Manasse, al quale è sempre rimasta fedele nonostante i diversi pretendenti), proprio come il popolo che si è allontanato dal suo Dio, e ha il coraggio di opporsi al potente nemico. Ma torniamo alla narrazione: l’autore, sconosciuto, ci dice che l’esercito di Nabucodonosor, comandato da Oloferne, assedia la fortezza di Betulia, che si trova a sbarrargli la strada in direzione Gerusalemme. Siccome Betulia è un’acropoli – dunque posta su un colle, pertanto con la sorgente d’acqua alle sue pendici – , era fondamentale proteggerne la sorgente, alla quale solitamente si accedeva dalla città attraverso un tunnel sotterraneo. Primo obiettivo dei nemici era dunque quello di bloccare la sorgente, e vedere poi quanto tempo i difendenti sarebbero sopravvissuti o dopo quanto si sarebbero arresi. Il capo della città, Ozia, comanda di temporeggiare «ancora cinque giorni», ma la bellissima e giovane Giuditta non è d’accordo: anzitutto prega il Signore di aiutarla, poi, senza avvertire nessuno, si veste di tutto punto e si reca al campo nemico, in cui chiede di incontrare Oloferne e, fingendo di arrendersi a lui, si propone addirittura come spia contro Israele. Il comandante “abbocca” e una sera dà un banchetto, al termine del quale spera di far sua la bella Giuditta, la quale però, approfittando del fatto che questi è completamente ubriaco, lo lascia addormentare nella sua tenda e, supportata dalla sua ancella, gli taglia la testa e la mette dentro una bisaccia. La celebre scena è meravigliosamente ritratta, tra gli altri, da Michelangelo, che in uno dei quattro pennacchi della volta della Cappella Sistina, mostra le due donne già all’esterno della tenda. Così Giuditta e l’ancella fecero ritorno a Betulia con lo scalpo del nemico: «estrasse allora la testa dalla bisaccia.. dicendo..: “Ecco la testa di Oloferne.. Dio l’ha colpito per mano di una donna”». All’incredibile scena Ozia rispose con un’esclamazione quasi liturgica: «Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo, più di tutte le donne che vivono sulla terra..» (13,18). Parole in cui si respira evidentemente il saluto di Elisabetta a Maria, di cui Giuditta è figura e simbolo, come testimoniano le parole del sommo sacerdote: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente» (15,9), parole introdotte non a caso nel canto mariano del Tota pulchra, antica preghiera composta nel IV secolo. 

Cos’ha da dirci dunque questo libro? Per l’ennesima volta, che Dio si è fatto schiavo, per usare un’espressione cara a san Paolo, scegliendo in questo caso una donna, al tempo considerata meno di zero, per lo più vedova! Si affianca cioè a quella categoria di persone che l’Antico Testamento chiama «i poveri del Signore», gli ’anawîm, in ebraico “coloro che sono curvi”, curvi perché oppressi, schiacciati dai potenti di turno.     

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

Scarica la nostra App su