Malachia: Introduzione



Introduzione al libro del profeta Malachia
«Oracolo. Parola del Signore a Israele per mezzo di Malachia..», così inizia l’ultimo libro dell’Antico Testamento, almeno nella Bibbia cattolica. Dal punto di vista cronologico, tuttavia, questo profeta, dodicesimo di quelli cosiddetti “minori”, non è “l’ultimo a parlare”, anche se non sappiamo esattamente quando l’abbia fatto, in ogni caso di certo dopo l’esilio, forse tra il 480 e il 460 a.C. Non solo, di lui non conosciamo neppure il nome, probabilmente lo pseudonimo inventato da un redattore al fine di dare un nome ad un profeta non esplicitato. Da dove nasce allora Malachia? Dal primo versetto del capitolo tre: «Ecco, io manderò un messaggero»; in ebraico “mio messaggero” si dice infatti mal’akî, mal’ak, cioè l’angelo, parola che l’italiano attinge dal greco ánghelos. Ecco allora che l’autore del libro diventa Mălĕ’âkî, Malachia, profeta dunque senza nome né tempo. Strutturato su una serie di dialoghi tra lui stesso e i suoi interlocutori, si tratta di un insegnamento che segue uno schema preciso: affermazione del profeta, contestazione degli ascoltatori e motivazione della proposta profetica. Tali dialoghi toccano diverse tematiche, anzitutto l’amorevole fedeltà di Dio nei confronti d’Israele. Il secondo, per contro, tratta dell’infedeltà del popolo nei confronti di JHWH, nello specifico riguardo al culto, preannunciando un giudizio sui sacerdoti responsabili. Il terzo inerisce l’infedeltà matrimoniale, legame che simboleggia più in generale quello tra il Signore e il popolo eletto. Malachia è il profeta veterotestamentario che più di tutti si scaglia contro il divorzio. Non solo, la condanna si estende ai matrimoni misti (tema già caro alla riforma di Esdra), dato che l’avvicinamento di donne straniere diventa occasione per approcciare anche i loro dèi. Il profeta entra inoltre nello specifico della spiritualità nuziale: «Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere se non prole da parte di Dio?» (2,15). Si tratta della visione generativa delle nozze, tipica della Bibbia, che sottolinea in tal modo l’enorme possibilità, data all’essere umano, di co-operare maggiormente all’opera del Creatore, divenendo cioè generativo a sua volta. Occorrerebbe tuttavia, considerate le impietose statistiche attuali, chiedersi se e quale senso abbiano quei matrimoni in cui, per i più disparati motivi, i figli non ci sono.. Una prima risposta, seppur non esaustiva, è senza dubbio legata alla creatività che l’essere umano, uomo o donna, è chiamato – ecco la sua grande e forse prima vocazione! – a mettere in atto. La persona non generativa, sotto ogni punto di vista, non collabora dunque con Dio. Detto altrimenti, non è ciò che è chiamata ad essere: «immagine e somiglianza» del suo Creatore. E ognuno di noi, ognuno, può e deve essere generativo in mille modi, pur restando il “dare alla luce” un figlio la strada più evidente e socialmente comprensibile. Appena prima del versetto citato, il messaggero aveva affermato che «il Signore è testimone fra te (uomo) e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto». E qui, probabilmente, abbiamo la ragione che ha portato la Chiesa cattolica – sulla scia di quanto ha poi detto Gesù sul ripudiare la moglie – a sigillare le nozze con un sacramento. L’invito è insomma a tornare alla sorgente di quell’amore divino che, coerentemente con la logica dell’Incarnazione, si manifesta in quello umano. Ragion per cui «due non credenti o vagamente credenti – afferma il biblista Gianfranco Ravasi – non dovrebbero celebrare il matrimonio in ambiente ecclesiale». Allo stesso modo, aggiungiamo noi, sarebbe altrettanto illogico – per due credenti – non sposarsi “in chiesa”: non si tratta di essere più o meno bigotti, quanto piuttosto di agire in modo coerente e razionale. Tornando al testo di Malachia, nel quarto dialogo il Signore promette un messaggero che restaurerà il culto e condannerà gli empi. Nel quinto viene invece condannata l’ingiustizia circa il pagamento delle decime al tempio. L’ultimo, infine, mette in scena una discussione fra credenti che dubitano della giustizia di Dio. Non ci siamo forse anche noi tra loro? A proposito di credenti, nel primo capitolo Dio dice che «dall’oriente all’occidente grande è il (suo) nome tra le nazioni, e in ogni luogo si brucia incenso in (suo) nome e si fanno offerte pure..»: di cosa si sta parlando, se non del fatto che ognuno – uomini di qualsiasi religione, o anche solamente giusti – porta con sé il medesimo Desiderio, pur chiamandolo in modo diverso? «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio»: così, invece, termina l’ultimo libro dell’Antico Testamento, almeno nella Bibbia cattolica. Sono tre versetti densissimi quelli che concludono la prima parte della Scrittura, ed è di Elìa che si parla, quel precursore che il Vangelo di Luca individuerà nel Battista, che per Matteo e Marco è invece Gesù stesso. L’Antico Testamento getta in pratica un ponte sul Nuovo. Ma riusciamo ad accettare che l’ultima parola del Primo dei due Testamenti sia cherem, “sterminio”? Siccome, almeno per noi cristiani, la prima Alleanza senza la seconda, quella definitiva, rimane incomprensibile, ecco che tale parola, pesantissima e apparentemente senz’appello, rimane sospesa. Come sospesi rimarremmo noi se, quel ponte gettato, non lo attraversassimo..                       

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

 

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