Vangelo di Luca: Introduzione



Introduzione al vangelo di Luca
Quello di Luca, per gli studiosi scritto tra il 75 e il 90 d.C., è il vangelo più lungo (1151 versetti) e quello scritto nel greco migliore, il più raffinato, come ebbe già modo di dire san Girolamo, anche se ovviamente non paragonabile al greco dei grandi classici, dato che ne utilizza una versione popolare, la koinè (“comune”), la lingua più diffusa nel bacino del Mediterraneo dalle conquiste di Alessandro Magno in poi. Il suo è il vocabolario più ricco di tutti i libri del Nuovo Testamento, senza tralasciare però i semitismi, i latinismi e le frasi poco eleganti, nonostante abbia volutamente eliminato parole ebraiche e aramaiche (abbà, alleluia, osanna, effatà, korbàn, ecc..), ma conservandone altre (mammona, satana, Beelzebul e amen). La sua opera è costituita da due libri, entrambi dedicati al nobile Teofilo, anche se i destinatari sembrano soprattutto i cristiani di lingua greca provenienti dal paganesimo, appartenenti forse alla comunità di origine paolina. I suoi due scritti hanno lo stesso stile e la medesima teologia di fondo: sebbene si presenti nelle vesti dello storico (il Gesù di Luca agisce in uno spazio-tempo ben preciso), ciò che più gli sta a cuore è la storia della salvezza.. Dio, che l’ha offerta nell’Antico Testamento a Israele, continua a farlo nel Nuovo in Cristo e poi nella Chiesa, animata dallo Spirito. La sua historia salutis segue dunque tre tappe: il tempo d’Israele (la promessa), quello di Gesù (la sua realizzazione) e quello della Chiesa (il compimento), che forse vanno più correttamente divise in due epoche, Primo e Secondo Testamento. Quest’ultimo è da suddividere a sua volta in tempo di Gesù e tempo della Chiesa, che in quel momento stava continuamente col capo alzato in attesa della parusìa, in greco “presenza”, termine usato per indicare l’arrivo dell’imperatore nelle “sue” città, evento gravido di conseguenze concretissime: la remissione dei debiti e delle tasse, le amnistie e la liberazione dei prigionieri! Dunque tre fasi storiche  e due epoche che si muovono su un perno ben preciso: Gesù di Nazareth. Significativi i termini a cui solo Luca ricorre: soterìa (salvezza), soterion (salutare), soter (salvatore) e so(i)zein (salvare), egli insiste infatti sull’«oggi» della salvezza. Il luogo di composizione dell’opera è sconosciuto, in ogni caso non la Palestina, che l’evangelista dimostra di conoscerne geograficamente a mala pena. Luca, le cui spoglie mortali furono portate secondo san Girolamo dopo la metà del IV secolo a Costantinopoli, mentre oggi si trovano a Padova nella basilica di santa Giustina, è un cristiano di seconda o terza generazione, forse un pagano nato ad Antiochia di Siria, e ha  fornito alla liturgia cristiana il materiale più abbondante: il ciclo del Natale, le feste dell’Annunciazione, della Presentazione al tempio, della Natività del Battista, dell’Ascensione e della Pentecoste. Solo lui tra gli evangelisti ha un vero prologo (come quello di numerosi scritti greci del tempo), che viene ripreso all’inizio degli Atti (1,1-2), aspetto che mostra come la sua sia un’opera unitaria, aperta con l’infanzia di Gesù e conclusa con l’arrivo di Paolo a Roma, momento in cui la Buona Notizia raggiunge la capitale dell’impero. Prologo che anticipa la sua chiarezza espositiva, indica infatti lo scopo, le fonti, il metodo e il destinatario: «Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine.. così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate.. e di scriverne un resoconto ordinato (dieghesis, “ben distribuito”, sviluppato in modo chiaro) per te, illustre Teòfilo». Insomma una prefazione classica, unica nel Nuovo Testamento. Ma chi è questo Teòfilo? Non sappiamo se il nome di questo personaggio illustre, letteralmente ottimo (epiteto che si usava nei confronti di un personaggio più o meno ufficiale), sia proprio – indicando quindi un personaggio specifico – o un destinatario simbolico, dato che Teòfilo in greco significa “amico di Dio, amante di Dio” o “caro a Dio”.. I cosiddetti “vangeli dell’infanzia” – che occupano 128 dei 1151 versetti totali – non sono però pagine che Luca scrive “per bambini”, al contrario, sono per certi aspetti difficilissime. Il biblista Gianfranco Ravasi li definisce “protovangeli”, nel senso che in quel Bambino si intravede già il Signore glorioso. «La Chiesa d’Oriente.. – scrive infatti – non ha mai considerato il Natale festa di un Bambino, festa dei bambini. Il titolo del calendario ortodosso per.. (tale) festa è: “Pasqua del Natale del Signore”.. (e nell’) icona natalizia di Novgorod (del XV secolo).. Gesù bambino.. è messo in una culla a forma.. di sepolcro; e le fasce sono già.. (quelle) della sua sepoltura. Nel Bambino c’è (insomma già) la luce della pasqua». Vangeli dell’infanzia che si sviluppano in sette scene (numero che nella Bibbia rimanda alla pienezza) costruite con rigore: due annunciazioni, a Zaccaria prima e a Maria poi, la visitazione ad Ain Karim (in ebraico “la sorgente della vigna”) e poi la nascita del Battista e quella di Cristo, per finire con due scene ambientate nel tempio di Gerusalemme, il cui protagonista è Gesù: prima come bambino, poi nelle vesti di adolescente. Settenario narrativo che dunque inizia e termina sempre al tempio. Ma di quale tempio stiamo parlando? Nell’annunciazione l’angelo si rivolge a Maria: «rallégrati, piena di grazia», traduzione non troppo felice a detta degli esperti, poiché dà l’idea che la Vergine sia essa stessa la sorgente della grazia.. si tratta infatti di un passivo, che andrebbe tradotto «o tu che sei stata riempita dalla grazia», ovviamente da Dio, che ne ha fatto in tal modo la tenda perfetta, il santuario dei santuari, il vero tempio! I Padri della Chiesa giocheranno con queste parole, tra loro molto simili, dicendo che il suo grembo (in greco koilìa), diventa il kòilon, il cielo. La parola contemplare non significa forse “fissare lo sguardo su un pezzo di cielo”, che tuttavia si trova in terra? Ecco, Gesù è il Cielo sceso in terra! In una sua omelia sul Cantico dei Cantici san Bernardo ricrea la scena dell’annunciazione con una suspanse senza pari, attesa che ha tenuto “sospeso” l’intero genere umano: «L’angelo aspetta la tua risposta.. Stiamo aspettando anche noi.. Rispondi presto.. Pronunzia.. la parola che terra e inferi e cielo aspettano.. Ecco, Colui che è il desiderio delle genti sta fuori e bussa alla tua porta. Alzati, corri, apri, rispondi di sì». Spettacolo! Maria che dunque Luca ci presenta come modello di fede: lei è non tanto colei che «conservava (tutto quanto le stava accadendo meditandolo) nel suo cuore», ma la symbàllusa, colei che ha saputo “tenere insieme” – come fa il simbolo – ciò che umanamente insieme non poteva stare.. Rispetto a Matteo, però, Luca redige artisticamente la sua composizione, mettendo a confronto l’infanzia di Gesù con quella del Battista, per metterne in risalto il rapporto ma anche la superiorità del primo, di cui il secondo è precursore e, allo stesso tempo, primo e ultimo dei profeti. Per quanto riguarda la struttura, questo vangelo inizia come detto con l’infanzia di Gesù (cc. 1-2), seguita dalla preparazione al suo ministero pubblico (3,1-4,13), quindi il ministero in Galilea (4,14-9,50) e il viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,27) – la sezione lucana più caratteristica –, che non è però di tipo topografico ma teologico, inizia infatti con «egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino..», letteralmente “fece la faccia dura”, “indurì il volto”. Come Gesù anche il suo discepolo è insomma chiamato ad essere un pellegrino deciso, perché la miglior metafora della vita è il viaggio, l’esistenza come nomadismo e, soprattutto, il cristianesimo come marcia (dunque sempre aperta al cambiamento) verso una meta ben precisa. Il discepolo di Gesù, allora, non può nemmeno pensare che la vita non abbia senso, dato che il Maestro – «via, verità e vita» – è al tempo stesso significato, sapore e fine ultimo dell’esistenza. Dopo il viaggio verso Gerusalemme ecco il ministero in città (19,28-21,38), cui seguono e chiudono la passione e la risurrezione (cc. 22-24). Tra le scelte originali fatte da Luca abbiamo tra le altre l’omissione di alcuni episodi troppo violenti, per via della sua sensibilità (come l’uccisione del Battista e la coronazione di spine), o poco onorevoli per gli apostoli (ad esempio la richiesta dei figli di Zebedeo). Diversi sono gli aspetti che lo caratterizzano: la denuncia nei confronti della ricchezza, la celebrazione del distacco e della povertà, l’amore (è infatti un appello alla dimensione sociale della fede) e la gioia; non a caso usa ben cinque verbi diversi per esprimerla in tutti e 27 i passi del suo scritto. Ci sono poi altri  aspetti più “tecnici”, ad esempio la ripetizione di alcune parole («Signore, Signore», «Marta, Marta», «Maestro, Maestro»), i parallelismi e le divisioni a coppie, soprattutto nel vangelo dell’infanzia. Ama inoltre accostare un miracolo a favore di un uomo a quello a favore di una donna, o una parabola riguardante il lavoro di un uomo a quello di una donna. Il suo è inoltre il vangelo della preghiera, non solo perché raffigura Cristo come il perfetto orante, ma per averci regalato quei capolavori che ogni giorno celebriamo nella Liturgia delle Ore: il Benedictus, il Magnificat e il Nunc dimittis, oltre al Gloria in excelsis. Se con il Benedictus ci uniamo ogni mattina a Zaccaria nel “lodare” il Signore, nel Magnificat Luca insiste con la simbologia del numero sette, i verbi attraverso i quali nel cantico avviene il ribaltamento da parte di Dio delle sorti dell’umanità: «ha spiegato.. ha disperso.. ha rovesciato.. ha innalzato.. ha ricolmato.. ha rimandato.. ha soccorso».. il Signore irrompe nella nostra storia attraverso quella di Maria e sconvolge i nostri rigidi schemi, talvolta “umani, troppo umani”, per dirla con Nietzsche. Il Nunc dimittis è invece quel canto della sentinella che ognuno di noi è chiamato a celebrare prima di ogni notte, sapendo che la luce di Cristo poi risorgerà, non solo il giorno dopo.. Le fonti di cui si serve Luca sono il vangelo di Marco, la celebre fonte Q (dal tedesco Quelle, “fonte”), una raccolta di frasi di Gesù e, per quanto riguarda i vangeli dell’infanzia, una fonte palestinese, oltre ad alcune conoscenze sue personali. Il tutto rielaborato in modo originale, dando vita ai racconti dell’infanzia o ad alcuni miracoli, cinque dei quali presentati solo da lui: la donna curva e poi l’idropico, entrambi guariti di sabato (Lc 13 e 14), i dieci lebbrosi (Lc 17) e «l’orecchio destro» riattaccato al servo del sommo sacerdote (Lc 22). A questi si aggiungono gli interventi di Erode e le apparizioni pasquali, ma soprattutto le parabole, i veri gioielli di questo vangelo: il buon samaritano, l’amico che occorre svegliare, il ricco stolto, il fico sterile, il figlio ritrovato (impropriamente definito “figlio prodigo”), il ricco e Lazzaro, il fariseo e il pubblicano, ecc.. Il vangelo di Luca, che ha diversi punti di contatto con quello di Giovanni, alla dimensione temporale inserisce quella spaziale, sottolineata dalla categoria del cammino, come «via della salvezza». Tale via (hodòs) si identifica con la persona stessa di Gesù e comincia «verso» Gerusalemme, e da qui agli estremi confini della terra (AT 1,8).  Il “Dio di Luca” è un innamorato dell’uomo, come evidenzia l’uso di alcuni termini: eudokìa (beneplacito, benevolenza) e eudokein (compiacere). A Gesù attribuisce diversi titoli: Salvatore (usato nei Sinottici solo da lui), Signore (Kyrios), ma non dopo la glorificazione pasquale, bensì già dalla nascita! E poi Figlio di Dio, Re, Figlio di David, Figlio dell’uomo, Cristo (in Luca più un nome che un titolo) e Profeta. Egli mette inoltre in risalto l’azione dello Spirito Santo nella vita di Gesù (pensiamo ai vangeli dell’infanzia, dove agisce anche in Elisabetta, Zaccaria, Giovanni, Simeone e nei discepoli), come in quella della Chiesa, per la quale è il massimo dono. Luca è considerato un vangelo “sociale”: la condivisione dei beni rappresenta per lui l’espressione più concreta della koinonia, l’unione fraterna, come sottolinea poi negli Atti. Ma è anche il vangelo della conversione, e dal secondo secolo è stato attribuito a Luca, forse abbreviazione di Lucano o Luciano, ma non è sicuro si tratti del «caro medico» citato da Paolo nella lettera ai Colossesi (4,14), anche se la tradizione lo ritiene tale già a partire da Ireneo di Lione. Un piccolo indizio a favore di ciò, da prendere tuttavia con le pinze, è il tratto non violento di Gesù che caratterizza il suo scritto: se Giovanni ci dice che il servo del sommo sacerdote a cui Pietro nel Getsemani taglia l’orecchio si chiamava Malco (letteralmente “il suo re”), solo Luca aggiunge che il Maestro lo guarisce riattaccandoglielo! Insomma, un Gesù medico come lui.. Il celebre Canone Muratoriano, raccolta di testi sacri della Chiesa si Roma del secondo secolo, così chiamato perché scoperto da Antonio Maria Muratori e conservato oggi nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, afferma: «Egli scrisse in nome proprio e secondo il suo punto di vista, per quanto non avesse visto personalmente il Signore nella carne». Non è insomma stato testimone diretto di quanto avvenuto, ma si fa eco della tradizione, che più tardi ha deciso perfino di farlo diventare pittore! La leggenda gli attribuisce infatti almeno 275 Madonne nere, sulla base di una lettura mariologica del Cantico dei cantici: «Bruna sono ma bella», «Nigra sum, sed formosa» nella versione latina (1,5). È per tale ragione che le Madonne nere sono diventate il cuore di tanti famosi santuari: da Santa Maria Maggiore a Roma a Czestochowa, passando per San Luca a Bologna. Tutto ciò perché l’evangelista è colui che più e forse meglio di tutti ha parlato di Maria. Non solo, è anche l’evangelista più sensibile alla presenza delle donne accanto a Gesù. Altra perla che ci regala l’evangelista è la celebre vicenda dei due di Emmaus, cammino che siamo chiamati a percorrere ogni domenica: all’ascolto del viandante non riconosciuto (liturgia della Parola) segue la sua klasis tou (tu) artou, la “frazione del pane” (liturgia eucaristica). L’ultima scena che Luca ci regala è l’ascensione: dalle periferie a Gerusalemme e da qui al cielo. È proprio sul monte degli Ulivi che i bizantini prima e i crociati poi costruiranno un’edicola (dal latino “tempietto”) con pianta ottagonale: l’otto infatti, eccedendo il sette, la perfezione, è simbolo dell’eternità, cioè della “più che perfezione”, in senso temporale. Questa chiesa dell’Ascensione sorge sull’Imbomon, luogo che in greco significa “sulla collina”, in cui è conservata ancora oggi la Pietra dell’Ascensione, ultima testimonianza del Gesù terreno: una lastra sulla quale si ritiene siano rimaste impresse le impronte dei suoi piedi. Se la costruzione attuale è del 1150, la prima risale invece al 390 d.C., originariamente edificata a cielo aperto, senza tetto, a ricordare ad ogni chiesa edificio che, se da una parte è una struttura ben piantata sulla terra, dall’altra è aperta verso il cielo..

 

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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