Testimoni: San Disma (27 Aprile)



San Disma (Il buon ladrone)
Patrono di moribondi, ladri, prigionieri, alcolizzati e pentiti dell’ultima ora, la Chiesa cattolica lo commemora il 25 marzo, in concomitanza con l’Annunciazione, sulla base simbolica di un’antica tradizione che vuole il giorno della crocifissione coincidente con quello dell’incarnazione di Cristo. 

Di chi stiamo parlando?
Protettore dei prigionieri e dei moribondi, a chiamarlo Disma o Dysmas è per la prima volta la versione greca del Vangelo di Nicodemo, un apocrifo del IV secolo, mentre altre fonti gli danno i nomi di Demas (la tradizione copta ortodossa e la narrazione di Giuseppe d’Arimatea), Zoatham o Zoathan (il Codex Colbertinus), Tito (un Vangelo dell’infanzia arabo) e Rach (dalla tradizione ortodossa russa, che lo chiama anche Pax). Se la Chiesa ortodossa orientale lo celebra il venerdì santo, alla pagina del 25 marzo del Martirologio Romano leggiamo: «Commemorazione del santo ladrone che, avendo professato la fede in Cristo sulla croce, meritò di udire da lui: “Oggi sarai con me nel paradiso”». Il presbitero bergamasco Oliviero Giuliani (1946-2020), che nel 2019 ha pubblicato per l’editrice Velar San Disma. Il buon Ladrone nel cuore del Vangelo, lo definisce «segno di una speranza nuova, messaggero dell’amore infinito di Gesù e testimone di una grazia assoluta, esagerata e fuori tempo massimo». 

Ma, parlare di Gesù e dei ladroni, non può prescindere dall’accennare alla pena cui tutti e tre sono stati condannati.. di cosa si trattò davvero? 
«La Roma dell’antichità classica – prosegue Giuliani – era considerata il faro della civiltà e del diritto. Ma non esitò ad adottare nel suo ordinamento giuridico la pena capitale in più varianti: la decapitazione, la flagellazione.. il rogo (punizione riservata soprattutto ai condannati per stregoneria e sodomia), la precipitazione dalla rupe Tarpea (sperone del lato meridionale del Campidoglio.. da cui venivano gettati i colpevoli di delitti contro lo stato), la pena del sacco (inflitta ai colpevoli di parricidio..), la crocifissione». Quest’ultima, di origine orientale, con ogni probabilità proveniente dalla Persia, era considerata talmente disumana che «chi godeva della cittadinanza romana ne era esentato. Era riservata agli schiavi e ai non romani.. colpevoli di efferati delitti come l’assassinio, il furto aggravato, il tradimento e la ribellione al potere costituito». 

Ma come avveniva in concreto?  
«Una volta emessa la sentenza capitale – è sempre Giuliani a dircelo – , a portare il patibulum (il palo trasversale della croce) era il condannato stesso, che lo trascinava legato alle spalle fino al luogo dell’esecuzione.. (dove) il patibulum veniva applicato allo stipes (palo verticale solitamente piantato in modo permanente al suolo)». Appesi alla croce con funi o con chiodi, più verosimilmente conficcati tra radio e ulna piuttosto che nelle mani (poiché non avrebbero retto il peso del corpo), «i vestiti del condannato erano confiscati e toccavano ai soldati esecutori della pena. Al collo del malcapitato era legata una tavoletta di legno (titulus), su cui erano scritti il nome e il delitto del quale era stato riconosciuto colpevole».

Nel caso di Gesù, però, il titulus fu posto sopra la testa.
È quanto ci riporta l’iconografia, che annota l’ironia utilizzata nei confronti del Figlio di Dio: “Gesù nazareno Re dei Giudei”, inciso in aramaico, latino e greco. Ad ogni modo si tendeva a procrastinare la morte del crocifisso, che avveniva talvolta dopo giorni, per collasso o asfissia, dato che la pena mirava ad umiliare e a far soffrire il più possibile; non solo, «poteva accadere anche che svenisse e fosse preso di mira da animali selvatici come sciacalli, lupi, avvoltoi».

Davvero terribile!
Eppure un residuo di umanità poteva ancora esserci: il carnefice poteva decretare la fine della sofferenza, o attraverso un colpo di lancia al cuore o, più frequentemente, tramite il crurifragio, ovvero la rottura delle gambe, gesto che impediva alla vittima di reggersi sulle stesse e, dopo poco, morire soffocato. Per i due ladroni, come ci riporta l’evangelista Giovanni, il crurifragio venne applicato poiché «Era il giorno della Parasceve» (Gv 19,31), ovvero la preparazione del sabato e, a quell’ora tarda, secondo il computo ebraico, la festività stava per iniziare, ragion per cui nessun cadavere (considerato il massimo dell’impurità) poteva rimanere esposto. Per Gesù non fu necessario, essendo già morto. La crocifissione fu abolita solo tre secoli dopo, da Costantino.   

Spesso l’arte ci mostra un teschio umano ai piedi della croce, come mai?
Quel primo venerdì santo della storia ebbe come teatro il Calvario o Golgota (traduzioni latina ed aramaica di “cranio, teschio”), che una leggenda popolare indicava come “tomba di Adamo”, un’altura così definita «perché da lontano richiamava la figura di un cranio umano, ma anche per la presenza di teschi di giustiziati lasciati senza sepoltura».  

Quanto ai due ladroni, cosa sappiamo di loro?
Di certo non tanto, ma si può ipotizzare fossero condannati per delitti gravi, non certo per essere solo due ladri, forse assassini e rivoltosi. La loro presenza ai lati di Gesù farebbe di quest’ultimo, di primo acchito, quasi il loro capo, ma la sua centralità è anzitutto cosmica e temporale: il Nazareno è quel magnete che ha attirato a sé il peccato di tutti e di sempre! Davvero il centro dell’uni-verso. Se Marco (15,27) e Matteo (27,44) li definiscono entrambi “ladroni”, Luca, che li chiama “malfattori” (23,32), ne distingue tuttavia l’identità: il primo «lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa condanna? Noi giustamente, perché riceviamo la giusta pena per le nostre azioni, lui invece non ha fatto nulla di male”. Poi aggiunse: “Gesù, ricòrdati di me, quando andrai nel tuo regno”». 

Quindi per Luca, quello che noi chiamiamo “buon ladrone” è “l’altro”, in opposizione al primo. Giovanni, invece, come li descrive?
Il quarto evangelista si limita a definirli “altri due”, specificando poi la posizione in cui vennero crocifissi: «uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo» (Gv 19,18). A chi credere, dunque, a Luca o agli altri tre? È lo stesso dilemma che si pone il drammaturgo irlandese Samuel Beckett nella sua opera teatrale Aspettando Godot. Ma ridiamo la parola al Giuliani che, circa il “buon ladrone”, sottolinea: «condannato all’atroce punizione della crocifissione, è senza dubbio un omicida. Ma al sentire le offese del compagno.. prova il moto di una spontanea difesa. È al termine di una vita fallimentare. Non può più trovare scuse e continuare a mentire a sé stesso. Prima di ogni altro magistrato, è lui il giudice più implacabile che si dà la sentenza di condanna».

Già, come se negli occhi del Nazareno vedesse riflessa la sua intera vita..
Proprio così, ma aggiunge Giuliani: «Prova invece una grande attrazione e un’irresistibile simpatia per colui che avverte come “giusto”.. si rivolge direttamente a lui. Lo chiama per nome, “Gesù”.. anche se magari non lo conosce a fondo». Questa precisazione dell’autore non è un’annotazione superflua, tant’è che pochi attimi prima l’altro ladrone gli aveva fatto una domanda: «Non sei tu il Cristo?», definendolo con un termine greco, equivalente dell’ebraico Messia, “unto”, colui che avrebbe salvato il popolo eletto, mentre il buon ladrone si inoltra nella cortina generica del “così fan tutti” e la oltrepassa, chiamandolo per nome, instaurando con lui una rapporto speciale, profondo. È forse tale desiderio di prossimità con Gesù che, più dell’ammissione dei propri peccati, genera la risposta del maestro, quella che ognuno vorrebbe sentirsi sussurrare all’orecchio in punto di morte: «Amen dico a te: oggi, sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).      

Sembra che Disma abbia messo fretta a Gesù!
In qualche modo sì. Quell’“oggi”, dal latino hoc die, letteralmente “in questo giorno”, indica il momento della salvezza. «Inoltre, – è ancora Giuliani a parlare – l’ultima compagnia di Gesù è ancora una volta quella degli ultimi e dei reietti della società: dopo i pubblicani, le prostitute, i malati, gli indemoniati, i peccatori di ogni risma, ora tocca a due malfattori. Giustizia ed equità, merito e retribuzione, perdono e castigo sono categorie che vengono sconvolte». 

Quindi, alla fine Dio perdona tutti e indipendentemente da tutto?
Questo no. Una fake girata nel secolo scorso attribuiva una frase ad uno dei più grandi teologi, il prete svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988): «l’inferno esiste, ma è vuoto». Non si tratta solo né tanto di una panzana che mina i concetti di inferno e paradiso, castigo e retribuzione, quanto piuttosto della dignità e della libertà dell’uomo, senza la quale quest’ultimo sarebbe “costretto al paradiso”. Von Balthasar affermò solamente (e non è poco) che, sperare nella salvezza eterna di ogni essere umano, non è contrario alla fede cattolica. 

Quanto al nome dell’altro malfattore, cosa sappiamo?
Se il nome del “buon ladrone” fa la sua prima comparsa nella già citata versione greca del Vangelo di Nicodemo, in quella latina, di un secolo posteriore, ecco il nome dell’altro: Gesta, che diventa Dimaco nel Vangelo arabo dell’infanzia, affermando tra l’altro che Tito/Disma impedì ad altri ladroni di derubare la Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto. Fu tale versione ad ispirare Fabrizio De André per la canzone Maria nella bottega del falegname, che scrive infatti: «vedran lacrime di Dimaco e Tito al ciglio». Ne Il testamento di Tito, invece, lo stesso cantautore genovese fa dire al pentito: «io nel veder quest’Uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore». Se per il danese Søren Kierkegaard «fu l’unico cristiano contemporaneo di Gesù», per un’altra filosofa, la francese Simon Weil, la grandezza di Disma sta nell’aver riconosciuto Dio nel proprio vicino, mentre papa Francesco, sulla scia di santa Teresa di Lisieux, sostiene che il cielo lui non se lo sia guadagnato, ma lo abbia proprio “rubato”!  

Oltre alla letteratura, quali altre fonti ci hanno tramandato la figura di Disma?    
Nell’arte, oltre che da Michelangelo nel suo grandioso Giudizio Universale della cappella Sistina, è stato dipinto da Tiziano a metà del 1500, oggi conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Nella crocifissione del Maestro Renano, opera del 1400 circa, oggi al Museo d’Unterlinden a Colmar, l’anima di Disma fuoriesce dal suo corpo per essere accolta da una schiera di angeli, diversamente da quella di Gesta che, uscita dalla sua bocca, è attesa da un demone, similmente a quanto accade nell’opera più o meno coeva di Hans von Tübingen, conservata invece a Vienna. In diversi, tra i quali il Mantegna, Paolo Veronese, Lorenzo Lotto, Giovanni Battista Tiepolo, Jan Van Eyck e Luca Signorelli, lo ritraggono rivolto a Gesù, diversamente dal cattivo ladrone, che volge lo sguardo altrove.. Jacopo Robusti, in arte Tintoretto, dipinge la Crocifissione addirittura con i due ladroni non ancora issati, a differenza del Nazareno. 

Esiste qualche chiesa a lui dedicata?
Diverse, ad esempio quella di Kingston, in Canada, costruita dagli stessi detenuti del vicino penitenziario; una nell’Illinois; un’altra ancora nei pressi di New York; la cattedrale brasiliana di San José dos Campos e, probabilmente l’ultima, la parrocchia di San Lazzaro di Savena, nel bolognese, consacrata nel giugno del 2019. 

Oltre alla letteratura, all’arte e all’architettura religiosa, altre fonti ci hanno tramandato la figura di Disma?    
Alcune città, tra cui quella californiana di San Dimas, portano il suo nome. Nel 1980 il regista Pasquale Festa Campanile (divenuto in seguito celebre per ben altre pellicole, su tutte Rugantino, Quà la mano, Culo e camicia, Bingo Bongo e Un povero ricco) realizzò Il ladrone, film nel quale Disma viene però chiamato col nome veterotestamentario di Caleb, e interpretato da Enrico Montesano, un truffatore convinto che Gesù sia un ladrone come lui, per poi ricredersi al momento della comune crocifissione.

Altri hanno azzardato affermare di più, di quel poco che sappiamo di Disma?
San Giovanni Damasceno (676-749) sosteneva fosse di origine egiziana, e che incontrò la Sacra Famiglia durante il passaggio di quest’ultima diretta in Egitto, essendo egli un brigante. Non solo, sempre secondo il dottore della Chiesa, avrebbe dato loro rifugio. A tesserne l’elogio più grande è però sant’Agostino che, nel Discorso n. 232, sottolinea come la fede di questo malfattore, Gesù non la trovò neppure nei suoi discepoli, tant’è che quando costoro «vacillarono, lui credette.. A un sospeso, a un crocifisso, a un sanguinante, a uno inchiodato diceva: “Quando sarai entrato nel tuo regno”. Quegli altri invece: “Noi speravamo”. Dove il ladrone aveva scoperto la speranza, là i discepoli l’avevano perduta». Ciò che tuttavia lo rende unico è il fatto di vantare la propria canonizzazione direttamente ad opera di Gesù! Che ciò, poi, avvenga proprio al termine della sua vita, è sottolineato dalla possibile etimologia del nome, derivante forse dal greco antico dysme o dusmé, “tramonto”. «Sembra incredibile, ma quel povero diavolo – conclude Oliviero Giuliani – ha dato conforto a Dio, quando Gesù, abbandonato da tutti, riceve finalmente una prima risposta alla sua ardente attesa; quasi un prologo della resurrezione». 

Donaci, Signore Gesù, di poterti rivolgere in punto di morte, le stesse parole di Disma: «ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Ri-cordati di ognuno di noi come hai fatto con lui, non smettere di portarci nel tuo cuore..  

 

 

 

Recita
Daniele Briglia, Cristian Messina

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