
Friedrich Nietzsche (25 Agosto)
Oggi celebriamo un personaggio altamente discutibile, almeno sotto il profilo spirituale, e lo facciamo proprio nel giorno in cui lasciò quella che a parer suo era l’unica vita possibile, si spense infatti il 25 agosto del 1900 a Weimar, dopo un crollo mentale avuto il 3 gennaio 1889 mentre si trovava in piazza Carlo Alberto a Torino, città che amò profondamente.
Stiamo parlando di Friedrich Nietzsche?
Esattamente. Quel 3 gennaio assistette ai maltrattamenti di un cocchiere nei confronti del proprio cavallo.. abbracciò l’animale e scoppiò in pianto, gettandosi a terra in preda a grida e forti spasmi. Questo momento plateale segnerà la fine della sua parabola intellettuale e fisica: ricoverato in una clinica psichiatrica di Basilea, venne in seguito trasferito a Naumburg per essere curato dalla madre prima e dalla sorella Elisabeth poi, ma invano. Si decise allora di portarlo nella sua casa di Weimar. La natura della follia resta tuttora un mistero: per alcuni fu causata dalla sifilide contratta durante il rapporto sessuale con una prostituta; per altri il collasso nervoso sarebbe figlio della tensione legata alla sua enorme attività intellettuale; per altri infine derivò da una forma tumorale, la stessa di cui era stato vittima il padre.
Perché celebrarlo?
Lasciamolo dire al gesuita Jean-Paul Hernández che, nel suo delizioso libretto intitolato Ciò che rende la fede difficile. Vademecum per pellegrini che si stancano spesso, mette in luce quanto Dio sia capace di scrivere dritto anche sulle righe storte: «Non ci sarebbe stato mai il libro di Giobbe senza l’eroe tragico greco, né il Qoelet senza i grandi pensatori dello scetticismo, né il Cantico dei Cantici senza la poesia erotica orientale, né i Vangeli senza le biografie ellenistiche, né il battesimo senza i riti d’acqua ebraici e i riti misterici pagani, né il genio di Sant’Agostino senza la filosofia di Platone, né le chiese cristiane senza i luoghi sacri pagani, né la teologia di San Tommaso senza Aristotele, né l’acutezza di molti teologi contemporanei senza il marxismo, la psicanalisi, il nichilismo, il “pensiero debole” e i pensatori della “società liquida”.. non ci sarebbe stato mai Gesù Cristo senza l’uomo.. una risposta se prima non ci fosse stata una domanda.. anche se spesso una bella domanda è già “gravida” della risposta». Conoscere questo gigante del pensiero, ma soprattutto lasciarci provocare dallo stesso, aiuterà probabilmente anche il cristiano più convinto, se dotato del coraggio di mettersi in ascolto..
Cosa sappiamo di lui?
Nato a Röcken il 15 ottobre 1844, un paesino vicino a Lipsia che oggi conta appena 600 abitanti e in cui riposa la sua salma, Fritz, come lo chiamavano in famiglia, fu il primo di tre figli del pastore luterano Carl Ludwig – che scelse quella parrocchietta di Röcken, rinunciando in tal modo a “far carriera”, a causa delle forti emicranie di cui soffriva – e di Franziska Oehler, essa stessa figlia di un pastore luterano. Nel giro di quattro anni nacquero anche Elisabeth e Joseph. In poco tempo, però, la gioia di tali nascite fu interrotta dalla tristezza di due decessi: lo stesso Joseph, ad appena due anni, e il padre Carl, a soli trentasei. Friedrich scriverà più tardi, ne Il crepuscolo degli idoli: «Ciò che non mi uccide mi rende più forte», e forte lo divenne. Il filosofo e psichiatra Karl Jaspers(1883-1969), cattolico sposato con una donna ebrea, nel 1952 scrisse Nietzsche e il cristianesimo, testo in cui, da psichiatra, sottolinea come la malattia di Nietzsche ne condizionò l’opera, a partire dall’infanzia, segnata soprattutto dalla scomparsa prematura del padre: «Com’è morto il pastore Nietzsche a soli 36 anni? – si domanda Giuseppe Dolei, che del testo di Jaspers ha curato l’introduzione – Si disse che in seguito a una caduta avesse battuto la testa, riportandone una commozione cerebrale.. Ma all’orecchio del bambino giungono presto altre voci. Uno zio finito in manicomio, un altro morto suicida, anche se pietosamente si volle mascherare il suicidio con un incidente domestico. Dunque la famiglia, per parte di madre e di padre, è esposta alla terribile tara della follia, come sembra confermare la fine anomala del fratellino di Friedrich, rapito da una meningite all’età di due anni».
Che ne fu di lui, in questa situazione?
La famiglia decise di trasferirsi a Naumburg, in cui il bambino poté iniziare gli studi, immerso in un clima segnato dal lutto e dalla religione, che lo invitò ad approcciare la Bibbia e l’arte, in particolare la poesia, il canto e la musica, soprattutto sacra, che amava tanto, fino a diciassette anni era infatti un credente convinto: «Dio mi ha già elargito numerose sofferenze – diceva – ma in ogni cosa io rivedo la sua grandezza»; e ancora: «Nel mio intimo ho già preso la ferma decisione di dedicarmi per sempre al suo servizio». Poi cambiò tutto: «Il Cristianesimo non è forse un’illusione della mente volta ad esorcizzare la paura della morte?».
Per certi aspetti è così, a guidarci sono infatti o la paura o i nostri più intimi sogni e desideri..
«Vuoi essere responsabile ti tutte le cose tranne che dei tuoi sogni.. – ammoniva infatti lui stesso – niente ti appartiene più dei tuoi sogni.. ed è proprio qui che hai paura». Ammesso a Schulpforta, un collegio di fama europea che frequentò fino al 1864, anno in cui gli venne conferito il titolo con un giudizio che lo vedeva «eccellente in teologia, tedesco e latino, buono in greco, sufficiente in francese, ma scarso in ebraico», al liceo venne anche bullizzato, i compagni lo chiamavano infatti “il piccolo pastore”. Praticamente costretto dalla madre – una delle figure femminili più decisive della sua vita, dato che visse in mezzo a sole donne: la mamma, la sorella, due zie, la nonna e la governante – entrò nella facoltà di teologia di Bonn, che lasciò però dopo pochi mesi, visti i suoi maggiori interessi per la filologia, materia insegnata da Ritschl, di cui più tardi seguì le orme a Lipsia e grazie al quale il 13 febbraio 1869 ottenne la cattedra di lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea.
Un percorso, fino a questo momento, esclusivamente accademico..
Non solo. Durante il servizio militare, da lui intrapreso come volontario dell’esercito prussiano, si ritirò dopo una caduta da cavallo, uno dei due episodi che lo accomunano all’odiato san Paolo, l’altro riguarda infatti la rinuncia alla cittadinanza prussiana, scelta che a venticinque anni lo fece diventare apolide: se l’“Apostolo delle genti” passò il resto della vita a predicare per il mondo al tempo conosciuto, il pensatore di Röcken iniziò a far parlare di sé l’intero mondo, ma solo dopo la sua morte. In quegli anni conobbe il celebre compositore Richard Wagner – che Diego Roberto Pesaola definisce «un incrocio tra Marylin Manson e Achille Lauro di quel tempo!» – , che iniziò a frequentare insieme alla futura moglie Cosima, coppia di cui diventerà una sorta di domestico. Se con Richard strinse un’amicizia tale da aiutarlo a redigere l’autobiografia del musicista (amicizia che ad un certo punto si ruppe per divergenze ideologiche, nonostante rivedesse in lui il tanto amato spirito dionisiaco), di sua moglie continuerà a coltivare una grande stima, al punto da considerarla l’unica persona al suo stesso livello intellettuale. La morte del compositore sarà tuttavia uno degli episodi negativi che maggiormente segnerà la vita di Friedrich.
Cosa successe dopo l’incontro-scontro con la coppia?
Un’altra amicizia era all’orizzonte, quella col filosofo di origine ebraica Paul Rée. Nel 1879abbandonò l’insegnamento e, grazie alla modesta pensione garantitagli dall’Università di Basilea, visse come detto da apolide, spostandosi sempre da solo verso rotte che garantivano tra l’altro un clima favorevole alla sua cagionevole salute. Fu proprio in uno di questi spostamenti che, a Roma, durante la Pasqua del 1882 incontrò la giovane studentessa russa Lou von Salomé, con la quale strinse più che un’amicizia, almeno da parte di lui, dato che Lou rifiutò la sua proposta di nozze. La nota bellezza delle mani di Friedrich, evidentemente non bastò.. Il declino dei rapporto con Paul e Lou lo spinse a dedicarsi alla sua opera più importante, quel Così parlò Zarathustra in cui c’è tutto Nietzsche.
Per quanto riguarda invece il suo pensiero, cosa ci ha lasciato di davvero importante?
I grimaldelli, attraverso i quali tentò di “scassinare” quelle che riteneva le false certezze dell’essere umano, furono fondamentalmente quattro: l’oltreuomo, l’eterno ritorno, l’amor fati e la trasvalutazione di tutti i valori. L’Übermensch, l’oltreuomo nietzschiano (da preferire a superuomo), è colui che si discosta dalla massa, avendo compreso che è lui stesso a dare significato alla vita, ponendosi al di là del bene e del male, conoscendo e superando il senso tragico della vita, anzi, trasformandolo in gioia e piacere, sulla scia di quanto avveniva nella tragedia greca. Scrisse infatti a tal proposito che «Basta una persona senza gioia per avvelenare una casa intera». Attraverso il concetto di volontà di potenza – afferma il già citato Pesaola (figlio d’arte del grande calciatore e allenatore argentino Bruno) nella sua rubrica intitolata La filosofia della Mangusta, così chiamata poiché questo animale è noto per dare l’allarme ai suoi simili appena fiuta il pericolo, diventando in tal modo simbolo di collaborazione – Nietzsche da rottamatore diventa allenatore, affidando al suo giocatore migliore, l’oltreuomo, la fascia di capitano. Pesaola, ancora, afferma che Nietzsche sia un filosofo difficile quanto le cinque consonanti consecutive che caratterizzano il suo cognome, un indigesto, «come la trippa o il matrimonio, la Juve o il comunismo», o lo odi o lo ami, o lo cerchi o lo eviti!
Nietzsche viene spesso associato al termine nichilismo.. di cosa si tratta esattamente?
Se “Dio è morto”, sostiene, dobbiamo imparare a cavarcela da soli, ma questa solitudine, cui non siamo abituati, può facilmente tramutarsi in nichilismo passivo. Egli distingue infatti due tipi di nichilismo, concetto quest’ultimo di cui aveva già parlato il filosofo Gorgia quattro secoli prima di Cristo, poi ripreso da Feuerbach e dagli altri due maestri del sospetto Marx e Freud. In sintesi: se non c’è più alcuna unità (rappresentata da Dio), né sostanza (i fatti, poiché abbiamo solo “rappresentazione di essi”), né alcuna meta, non rimane nulla, nichilismo deriva infatti dal latino nihil, “nulla”, che il pensatore di Röcken distingue però in passivo e positivo. Non solo, se ad essere saltato è l’intero banco, allora non ha più senso porsi domande. Diceva tra l’altro che «È meglio non sapere nulla che sapere molto a metà», e «Non c’è dubbio, la certezza di avere ragione ti fa impazzire». Ma se togliamo all’essere umano i suoi perché, cosa rimane? Non è senza domande che l’uomo rischia di vegetare in quella condizione animale di cui – lo splendido accostamento è ancora di Zap Mangusta – Jeffrey detto “Drugo”, protagonista del film Il grande Lebowski, è icona?
Nell’immaginario collettivo sembra che Nietzsche abbia ucciso Dio..
La sua Gaia Scienza (la “nuova felicità”) è celebre soprattutto per un paio di aforismi, uno dei quali (n. 125) riguarda un folle che annuncia “Gott ist tot”, Dio è morto: il mondo sovrasensibile, per Nietzsche un’invenzione utile, non serve più, non ha più alcun valore vitale per l’uomo, per cui l’Occidente deve accettare di non avere più riferimenti né rassicurazioni. Che fare? Non è forse un monito validissimo anche e soprattutto per il cristiano tiepido e per l’immagine statica che abbiamo di Dio? Per lui tutto ciò rappresenta tuttavia una fortuna.
Per quale ragione?
Perché l’uomo potrà riprendere ad essere protagonista qui, sulla terra, alla quale sprona a “rimanere fedeli”. Ma Nietzsche è seriamente preoccupato per le conseguenze di tale morte, che a parer suo si presenta come un bivio: da un lato, se l’armonia di prima è ridotta a sola illusione, l’uomo potrebbe avere in odio la vita, poiché tutto è vuoto e senza senso (nichilismo passivo), dall’altro che si accetti che la vita non ha alcun significato, per cui occorre sia il singolo a darglielo, amando il destino e diventando in tal modo un essere superiore (nichilismo attivo). L’oltreuomo è insomma un appartato, che vive lontano da quella massa-gregge che anela solo ad una vita facile, mentre lui non cerca la verità, la crea. L’Übermensch è mosso anzitutto da un sano egoismo: «Chi non ha due terzi della sua giornata per sé è uno schiavo», ma non cerca la “bella vita”, perché «ha bisogno del peggio di lui se vuole ottenere il meglio», ed è conscio che «Ciò che non ci uccide, ci rende più forti». Sa dunque che per la conservazione della specie è necessario anche il male, che sopporta e accetta. Predica il nichilismo attivo, con annessa trasvalutazione dei valori. Non è insomma Nietzsche a “uccidere Dio”, anzi, ne prende atto preoccupato, seppur in modo ambiguo. Si noti bene, il Nostro era in qualche modo – se non altro per il suo passato – un amico di Dio, e la sua presunta dipartita in qualche modo lo turba e ne ha nostalgia, come attesta nei Ditirambi di Dioniso e Poesie postume: «Tutte le mie lacrime scorrono verso di te, e il mio ultimo battito cardiaco ti brilla e ritorna, fiorisce per te, e ritorna, mio Dio sconosciuto, mio dolore, mia ultima fortuna».
Che mondo ci aspetta dopo la morte di Dio?
Lui non lo sa, ma constata che sarà il caos a prendere le redini. Il problema per Nietzsche è che, essendosi l’uomo totalmente appoggiato su Dio, ha abdicato alla propria responsabilità su questa Terra. Da pupazzo nelle mani della Provvidenza che tira a campare, deve diventare oltreuomo: «Devi diventare l’uomo che sei, fate quello che solo voi potete fare, sii il maestro e lo scultore di te stesso».
Che ruolo gioca in quest’ottica il senso che ogni umano, più o meno consciamente, ricerca nella propria vita?
L’aforisma contenuto in Ecce Homo già lo accenna: «Chi ha un perché abbastanza forte può superare qualsiasi come». Nel 2007 il noto filosofo e psicanalista Umberto Galimberti ha scritto L’ospite inquietante, saggio sui giovani che mutua proprio da una definizione nietzschiana. Nel testo afferma: «Finiscono sullo sfondo, corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, senso, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si è nutrita l’età pretecnologica. Chi più sconta la sostanziale assenza di futuro che modella l’età della tecnica sono i giovani, contagiati da una progressiva e sempre più profonda insicurezza, condannati a una deriva dell’esistere che coincide con il loro assistere allo scorrere della vita in terza persona». Per poi chiedersi se a tutto questo c’è una via d’uscita: «Si può mettere alla porta l’ospite inquietante?». La risposta che dà è interessante anche se, agli occhi di un credente, ancora troppo parziale.Continuando a lasciarci provocare da Nietzsche, diceva che «Si sentono solo quelle domande alle quali si riesce a trovare una risposta», e che «le convinzioni sono più pericolose delle bugie». Sempre in cerca di una figura paterna, fu un docente dolce e comprensivo, che non alzò mai la voce né ebbe uno scatto d’ira. Non solo, come il suo maestro Ritschl invitava gli studenti migliori a casa sua. Partendo dal presupposto che «L’uomo.. è solo una bozza», nell’aforisma 267 di Umano troppo umano si esprime poi, nello specifico, proprio sul tema dell’educazione: «Non esistono educatori.. si dovrebbe parlare solo dell’educazione che ci si dà da sé. L’educazione giovanile fatta dagli altri, o è un esperimento.. o un livellamento di principio, inteso a rendere il nuovo essere.. conforme alle abitudini e ai costumi che dominano».
Mooolto interessante! Tornando invece ai rimanenti tre “grimaldelli”?
L’altro aforisma che ha reso celebre la Gaia Scienza è il 341, in cui un demone sussurra la verità dell’eterno ritorno, ovvero che ogni cosa della nostra vita deve fare ritorno a noi. Un loopinformatico senza fine? Lo vorremmo? Probabilmente no, ma solo perché ciò che viviamo non ci piace, diverso sarebbe, al contrario, se ogni nostra azione ci piacesse e ne fossimo convinti. Quindi diamoci da fare per una versione positiva e attiva della vita! Nietzsche ridisegna, senza per altro voler offrire una nuova teoria del tempo, quanto piuttosto incrinare quella vecchia, la mappa temporale della vita, descrivendo l’eterno ritorno come due sentieri: uno che va all’infinito all’indietro (passato), l’altro che, sempre all’infinito, procede in direzione opposta (futuro), là dove l’eterno ritorno è il punto d’incontro dei due. Gli eventi non si verificherebbero cioè una volta sola, ma ad essere negato è anche qualsiasi forma di progresso rettilineo. Questa ciclicità non deve però spaventarci, poiché se scegliessimo anziché subirle – come già detto – , le diverse situazioni che caratterizzano la nostra vita (persone, luoghi, esperienze, ecc..), vorremmo ripeterle. «Che accadrebbe se un giorno o una notte – scrive nel celebre aforisma – , un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione.. L’eterna clessidra (dal greco klepsýdra – orologio, sottinteso, che – “ruba”, kleps, “l’acqua”, ydra, ndr) dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”?». L’eterno ritorno è in pratica da lui concepito come rottura dello sviluppo lineare del chronos, senza tuttavia ridursi ad un cerchio, «pone piuttosto – scrive Francesco Roat – l’attenzione sull’attimo, che vien colto quale kairos, quale adesso opportuno». Non c’è insomma alcuna abolizione temporale, anzi, si tratta di una sottolineatura qualitativa dell’esistere.
Qual è, invece, il terzo piede di porco col quale scardina ogni certezza?
Si tratta dell’accettazione del nostro destino, lo spinoziano amor fati, non inteso però come rassegnazione, bensì l’amare la vita davvero – da non confondere con l’attuale resilienza – , ma col fare appassionatamente tutto. Si tratta cioè di prendere in mano il destino, non di subirlo, di amare noi stessi e per davvero, simile al “comandamento zero” di cui parla il teologo Paolo Curtaz, quel punto di partenza senza il quale è inutile, forse impossibile, osservare gli altri dieci. L’amor faticonsiste nell’amare e accettare quanto ci succede, il nostro destino per quello che è, è stato e sarà, presente, passato e futuro, portatore di quel caos che tanto ci spaventa. Eppure per chi crede tutto è segno, per dirla con Benedetta Bianchi Porro, che visse una vita tutt’altro che facilmente accettabile. «Lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere è la posizione dionisiaca verso l’esistenza: la mia formula perciò è amor fati.. – scrive sempre in Ecce Homo – . A tal fine occorre comprendere i lati finora negati dell’esistenza non solo come necessari bensì come desiderabili.. per sé stessi come i lati più fecondi, più potenti, più veri dell’esistenza, in cui la volontà di essi si esprime più chiaramente.. Ho scoperto come un altro e più forte tipo d’uomo debba necessariamente escogitare l’innalzamento e il potenziamento dell’uomo in un’altra direzione: esseri superiori, al di là del bene e del male.. la mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità». E se l’amor faticorrispondesse in Nietzsche all’affidamento nella divina Provvidenza? Lasciamo la domanda in sospeso, come lui stesso suggerirebbe..
Quanto all’ultimo grimaldello?
Lo definisce trasvalutazione di tutti i valori vigenti che, a partire dall’annunciata “morte di Dio”, devono essere sostituiti, perché quelli antichi hanno fallito, dato che l’uomo non è felice. Ragion per cui occorre passare dal sacrificio al coraggio, dalla Provvidenza divina alla responsabilità, dalla metafisica alla “terrestrità”, e così via.. Si noti bene: la crisi da lui annunciata oltre cento anni fa, rappresenta in primis un’occasione per ridisegnare l’esistenza. La verità, fatta da e per l’individuo e la società, è quindi una totalità che ha incorporato, per trarne vantaggio, differenti punti di vista e prospettive. «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» era una delle sue massime, che disinnescava in tal modo la stessa scienza, da lui giudicata uno “strumento di anestesia”, che i suoi cultori praticherebbero su loro stessi. Scienza che, ancora, sarebbe figlia di un cristianesimo al tramonto, perché ereditaria del suo amore per la verità, seppur malcelata. La verità era insomma per lui un errore, eppure «Che cos’è dunque la verità?», si chiedeva “pilatamente” ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci.
Cosa pensava dell’età ellenica?
Da considerarsi un filosofo “nato postumo”, nel senso che iniziamo a comprenderne l’attualità solo ora (forse), Nietzsche, il quale riteneva che la filosofia si facesse “a colpi di martello”, era prima di tutto un filologo, amante quindi dei classici, che conobbe nel 1858, anno in cui iniziò a frequentare il rinomato collegio di Schulpforta. Detestava Socrate perché aveva messo il Sommo bene davanti a ogni cosa, aspetto che a parer suo generava solo ipocrisia, e riteneva che il crollo della tragedia greca e del suo carattere dionisiaco fosse la causa di tutto: Apollo che vince Dioniso costituivainsomma l’inizio della fine. Euripide avrebbe inoltre affossato Eschilo e Sofocle. Nietzsche scriveva per immagini, suggestioni e aforismi (che lui “definiva” una forma di eternità, dal greco aphorismós, traducibile con “definizione”, è composto infatti da apó, “da”, e horízō, “separo”), e lo faceva soprattutto – dicono – mentre camminava, elaborando concetti che poi fissava nero su bianco una volta tornato a casa. La vita è a parer suo un palcoscenico sul quale si fronteggiano continuamente l’apollineo (ovvero l’ordine e la regola, il cosmo) e il dionisiaco (il disordine, il caos). È in quest’ultimo che l’ebbrezza ci permette di andare oltre. A proposito di ebbrezza.. Nietzsche, che odiava la birra, una volta venne trovato sbronzo da un insegnante, vergognandosi oltremodo per l’accaduto. La tragedia greca, che vede la luce intorno al VI-V secolo a.C., nasce non a caso da antichi riti in onore di Dioniso. Con Euripide, Socrate e Platone, però, la tragedia come la vita, assume una connotazione a parer suo troppo razionale. Ad un certo punto sentì di dover abbandonare la filologia per la filosofia, ma come docente di quest’ultima disciplina era un dilettante, conoscendo solo gli autori greci e un po’ di Schopenhauer – del quale s’innamorò “per caso” notando il suo Il mondo come volontà e rappresentazione sul tavolo di una libreria – ma, senza successo, ragion per cui nel 1872 decise di scrivere La nascita della tragedia, opera di grande successo, l’unico in vita. Ma il libro fu criticato dal suo maestro Ritschl, che lo ritenne un’operetta wagneriana perché sovvertiva la filosofia greca.
Si diceva che la sua opera più importante è lo Zarathustra.. come mai?
Nietzsche scrisse tanto, anche quando la malattia e la follia lo assalirono. Molte opere tuttavia usciranno postume, tra l’altro curate, ma deformate, dalla sorella Elisabeth Förster-Nietzsche, la cui esistenza è stata segnata profondamente dalle nozze con l’agitatore antisemita Bernhard Förster, che la coinvolge nel progetto di edificazione di una colonia “ariana” in Nueva Germania, in Paraguay. Nonostante il pensiero di Friedrich fosse molto chiaro a riguardo – «In Germania non c’è generazione più sfacciata e sciocca di questi antisemiti», «I suoi portabandiera (afferma il già citato Dolei, riferendosi al terzo Reich che ha arbitrariamente fatto suo il pensiero nietzschiano) hanno agito proprio come i lettori che profeticamente Nietzsche temeva di più». Curatore delle sue opere fu anche l’amico Peter Gast, che come la sorella travisò tuttavia i contenuti delle opere nietzschiane. Se Ecce Homo può essere considerata la sua biografia intellettuale, l’opera probabilmente più decisiva, il suo lascito maggiore, rimane come detto Così parlò Zarathustra, pseudonimo quest’ultimo con cui Nietzsche urla il suo pensiero, consacrandosi ai suoi futuri lettori. Futuri perché l’ultima delle quattro parti in cui l’opera è scritta (tra il 1883-84), la sovvenzionò lui stesso, dato che le prime tre avevano venduto appena duecento copie! Zarathustra o Zoroastro, dal greco antico “pura stella”, fu un profeta e mistico iranico – se vissuto storicamente non ci è dato saperlo – fu molto influente sulle future religioni monoteiste, soprattutto circa il binomio bene-male.
Ma chi è colui che fa parlare Nietzsche?
«Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti», cosìinizia il prologo dell’opera, in cui gli orecchi più attenti scorgono immediatamente il parallelismo con Gesù e la sua predicazione. Il protagonista quindi, dopo dieci anni scende a “valle” e incontra un vegliardo: gli incontri che fa in sequenza ci introducono al secondo parallelismo, quello colBuddha – in sanscrito “risvegliato” – , tant’è che dopo poche righe si dice che «Zarathustra è un risvegliato». Quando i due si lasciano il protagonista dice tra sé e sé: «Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta, che Dio è morto!».
Un’affermazione diventata arcinota..
È la sua frase-firma, che ripete in diverse opere. Il secondo incontro è quindi quello con un funambolo, dinanzi allo spettacolo del quale Zarathustra parla alla folla che assiste inebetita: «Io vi insegno il superuomo», quell’Übermensch che, in tedesco, è forse meglio traducibile con oltreuomo. Folla che esorta attraverso un monito altrettanto chiave nel pensiero del filosofo diRöcken: «Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Ma gli astanti risero di lui, egli allora aggiunse, prendendo spunto da quanto stava attuando il funambolo: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo». Immagine interessantissima, soprattutto per un credente: la nostra vita non è forse “un cavo teso” tra la condizione animale e quella divina? Lo afferma anche lo storico e filosofo israeliano Yuval Noah Harari nel suo bestseller Sapiens. Da animali a dèi, lui che proprio credente non è.. Ma la folla continua a deridere Zarathustra, che a questo punto sentenzia: «bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante», immagine questa che mutua da Shakespeare, ma l’intera opera, a partire dal prologo, è infarcita di citazioni bibliche più o meno esplicite. Tornando al funambolo, «camminava sul cavo teso tra le due torri», immagine che questa volta rinvia, pur essendo accaduta dopo, alle gesta di Philippe Petit, l’artista francese che il 7 agosto del 1974 camminò su un cavo sospeso tra le tristemente note Torri gemelle di New York, azzardo da lui messo nero su bianco nel libro Toccare le nuvole, diventato quindi un documentario e infine il noto film The Walk, sotto la regia dello statunitense Robert Lee Zemeckis. Il funambolo di Nietzsche però, diversamente da quello di Zemeckis, cade, e Zarathustra gli si inginocchia accanto. «..sapevo da un pezzo – gli dice il circense – che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto. Ora mi porta all’inferno, vuoi impedirglielo?». Ma Nietzsche coglie l’occasione al balzo per girare l’ennesima provocazione all’umanità: «le cose di cui parli non esistono: non c’è il diavolo e nemmeno l’inferno», e aggiunge che la sua vita, che sta per terminare, l’ha vissuta come doveva: sfidando il pericolo. Al calar del sole il protagonista, ecco l’ennesima citazione biblica indiretta, si rende conto che l’unico uomo ad aver abboccato alla sua esca è.. un cadavere, ma è ai vivi che vuole rivolgersi, a «Compagni nella creazione.. che scrivano nuovi valori, su tavole nuove». Infine, così termina il prologo, «si mise a scrutare il cielo», scorgendovi un’aquila cui era appeso un serpente: «“Sono i miei animali!” disse Zarathustra», a parer suo rispettivamente il più orgoglioso e il più intelligente.
Due animali decisamente importanti, forse non a caso, anche nella Bibbia.
Curioso che la lingua tedesca possa tradurre sia intelligente sia astuto con klug, ambivalenza che fa venire in mente proprio quella di Genesi 3,1: «Il serpente era il più astuto di tutto gli animali selvatici che Dio aveva fatto», passo scritturistico che rimanda al capitolo precedente della stessa Genesi e gioca sull’aggettivo ebraico ‘arum, “astuto”, costruito sulla stessa radice della nudità dei progenitori: il redattore biblico sta dicendo in filigrana che l’astuzia del serpente ha a che fare con la nudità di cui Adamo ed Eva si sono resi conto dopo il peccato. L’aquila come il serpente, tornando a Zarathustra, simboleggiano tra l’altro il già citato eterno ritorno al quale rimandano: l’aquila per il suo modo di volare a spirale sulla preda, il serpente perché richiama l’antico urobòro, che si morde la coda formando un cerchio senza fine. In definitiva, Così parlò Zarathustra è il suo capolavoro perché – si perdoni l’abusato gioco di parole – dice tutto Nietzsche. Ma senza Dio né morale tutto è possibile, dunque, che fare? Il Nostro, però, non ammette nemmeno che qualcuno si aggrappi a lui e al suo pensiero: «Per codesti signori – dice nell’Also Sprach Zarathustra – non voglio essere luce, né essere chiamato luce. Costoro.. li voglio accecare: fulmine della mia sapienza! Cavagli gli occhi!».
Quale fu il suo rapporto con la religione?
Le innumerevoli citazioni, a partire da quelle indirizzate alla sola divinità, la dicono lunga: «È il suo basso ventre che impedisce all’uomo di considerarsi un Dio»; «Posso credere solo in un Dioche sa ballare»; «Dio ha anche il suo inferno: è il suo amore per l’umanità»; «Sono troppo curioso.. per accontentarmi.. Dio è una risposta scortese, un’indelicatezza per noi pensatori». Non mancano inoltre quelle sul cristianesimo e i suoi contenuti: «Già la parola Cristianesimo è un equivoco, in fondo è esistito un solo cristiano, e questi morì sulla croce»; «La verità è che la fede non è ancora riuscita a spostare le vere montagne», poiché, aggiunge evangelicamente, «La maturità di un uomoè quella di aver ritrovato la serietà che aveva al gioco quando era un bambino», e «Se hai un amicoche soffre, sii un sostegno alla sua sofferenza». Ma l’aforisma più attuale è forse il seguente: «Ci sono due diversi tipi di persone nel mondo: coloro che vogliono sapere e coloro che vogliono credere». Un po’ tranchant, l’uno infatti non esclude l’altro. A tal proposito, il presbitero veronese Sergio Carrarini nel 1985 ha dato alle stampe Salmi di oggi, un libro che rivisita in chiave attuale quasi tutto il salterio; il salmo 24(23), da lui intitolato I cercatori di Dio, lo introduce così: «La ricerca di Dio (e non più la sicurezza di Dio succhiata col latte materno) caratterizza la nostra epoca. È un cammino spesso sofferto e tormentato, dove la guida è affidata alla ragione e dove a volte emerge la paura di un impegno definitivo, totale, di una scelta». Questo cammino sofferto e tormentato, oltre che ambiguo e non troppo evidente, lo sperimentò lo stesso Nietzsche, come testimoniano Karl Jaspers e Francesco Roat.
Cosa sostengono questi due autori?
Il primo sottolinea anzitutto l’interessante parabola che Nietzsche ha percorso nei confronti del cristianesimo: cresciutovi all’interno, si trova poi a lottarci, per ripudiare infine anche gli aspetti che di tale religione aveva elogiato. Il pensatore di Röcken si mostra cioè ora cristiano ora tra i più feroci avversari di questa “religione”: solo per quanto riguarda la figura dei preti, in un dato momento li definisce “perfidi nani”, “ragni velenosi della vita” e “razza umana di parassiti”, in un altro un mite, serio e casto consacrato “dinanzi al quale il popolo può aprire impunemente il suo animo”. Quanto alla Chiesa, da una parte la ritiene causa della perversione dei valori umani e dispensatrice di una morale da schiavi, dall’altra un’istituzione più nobile dello Stato, capace di privarsi del “comando grossolano”. Senza contare che, pur ritenendo il cristianesimo «il migliore esempio di vita ideale che io abbia mai conosciuto», nella maggior parte dei casi lo vede come la peggior calamità toccata all’Occidente.
Come mai?
Se in Gesù Nietzsche vede l’unico cristiano vero, interprete coerente di una condotta di vita autentica, il problema sta in chi l’ha seguito negando però la realtà terrena, in primis Paolo, a parer suo vero pervertitore del messaggio evangelico, capace di trasformare una condotta di vita in dottrina. L’introduzione al testo di Jaspers ha già un titolo emblematico: La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla propria essenza cristiana, in cui precisa: «Chi conosce solo tale ostilità (nei confronti del cristianesimo) è destinato a stupirsi studiando Nietzsche», leggendo che lo considera ad esempio «il migliore esempio di vita ideale che.. abbia realmente conosciuto», deciso inoltre ad affermare il lascito biblico. Certo le critiche a questa “religione” vanno per la maggiore nel suo pensiero, tuttavia non sono le uniche. Aggiunge pertanto: «Ogni interpretazione di Nietzsche richiede la comprensione di tali contraddizioni.. – e ancora – La sua lotta al cristianesimonon significa affatto abbandonarlo, né restaurarlo, né cadere in una civiltà precedente, ma superarlo ulteriormente, e precisamente con le forze che il cristianesimo, e solo esso, ha sviluppato nel mondo».
Certo le lotte intestine al cristianesimo ci sono sempre state, ma sembra che Nietzsche le ritenga ormai all’ultimo stadio.. che abbia ragione lui?
Concediamoci il coraggio, sicuri della sua approvazione, di lasciare in sospeso la domanda. Ad ogni modo ciò che affermerà più chiaramente nell’età adulta lo pensava già da adolescente, ad esempio quando diceva che «Raggiungere la beatitudine mediante la fede significa che solo il cuore, non il sapere, può renderci felici», aggiungendo «L’incarnazione di Dio vuol dire che l’uomo non deve cercare la sua beatitudine nell’infinito, ma fondare sulla terra il suo cielo».
Quanto di più cristiano ci possa essere! E quando parla invece della “morte di Dio”?
Non ne afferma l’inesistenza, né dice di non credere in Lui e neppure si limita a constatare una generale mancanza di fede, fa piuttosto una fotografia di quel che vede, sottolineando però che serviranno ancora un paio di secoli per sperimentarne la portata. Qui però si è sbagliato: è servito molto meno tempo! Per lui lo scarto tra Gesù e il cristianesimo – stiamo sempre dando voce a Jaspers – si è verificato già all’interno del Nuovo Testamento: se il Salvatore mostrò una prassi di vita, i suoi discepoli la trasformarono in fede prima e in dottrina poi. Di tale prassi, sempre secondo Nietzsche, Paolo di Tarso salvò in primis la morte e risurrezione, stravolgendo a suo dire il lascito di Gesù.
Ma se togliamo la risurrezione del maestro di Galilea, cosa rimane davvero?
Più del cristianesimo in sé, forse, Nietzsche ripudia il suo infiacchimento di spirito. Ciò che più lo sconvolge è il fatto che anche i “forti e nobili” vi aderiscano, figura di cui Pascal fu l’esempio più illustre. «Di fronte al cristianesimo Nietzsche rinnova l’accusa, ampiamente giustificata – precisa lo psichiatra di Oldenburg – , che proviene dal lontano oriente già a partire dal secolo tredicesimo: i cristiani non fanno quello che predicano, né quello che dicono i loro libri sacri», paragonando poi il seguace di Gesù al buddhista, che si comporta diversamente dai non buddhisti, a differenza del cristiano che «si comporta come tutti gli altri».
Difficile dargli torto..
Ciò che più sottolinea Jaspers è tuttavia il fatto che il pensiero di Nietzsche «muova da impulsi cristiani», poiché «una visione totale della storia universale (come quella nietzschiana, ndr) è di derivazione cristiana». Per lo psichiatra cattolico tuttavia «l’importante non è la storia universale, che nessuno ha in mano, ma la storicità attuale, vale a dire che cosa io divento realmente, chi mi incontra, chi amo, quale compito concreto trovo come professione, quale immagine dell’uomo mi sta davanti.. – e ancora – come in tutto ciò l’Essere stesso mi è diventato tangibile, e reale il mio rapporto con la trascendenza, con l’eternità, e come a me il nulla si manifesta».
Passaggio strepitoso!
Quando Nietzsche afferma che “c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nell’uomo”, tra l’altro, non fa che tradurre il concetto di peccato originale, ma proprio tale limite, a differenza dell’animale, costituisce per l’essere umano il punto di partenza per essere ciò che è chiamato ad essere. Ma l’uomo nietzschiano, a differenza del credente, è lasciato a sé stesso. Ad ogni modo il pensiero di Nietzsche per Jaspers, e noi non possiamo non essere d’accordo con lui, «è uno sprone straordinario, è come il divieto di qualsiasi ripiego consolatorio». Conclude pertanto: «Diversamente, di Nietzsche non ci resta alla fine che un mucchio di assurdità e vacuità».
Qual è invece la tesi di Roat?
Sul suo rapporto, non solo col cristianesimo, ma con la religione in genere, si è soffermato il docente di Lettere e saggista trentino Francesco Roat, che nel 2017 ha pubblicato Religiosità in Nietzsche, testo dal sottotitolo ancor più curioso ed eloquente: Il Vangelo di Zarathustra. Nella premessa evidenzia immediatamente che «La religiosità.. non s’è mai limitata al teismo. Il Buddha non era legato agli dèi della tradizione induista. Lao Tzu.. non credeva a questa o quella divinità. Il confucianesimo è privo di pantheon. Per cui, paradossalmente l’a-teo.. può ritenersi religioso». Passa quindi in rassegna le varie possibili etimologie della parola religione: se Cicerone riteneva derivasse da relegere, “cercare con attenzione”, Lattanzio la faceva invece risalire a religare, “legare insieme”, mentre per Agostino rimandava a religere, “scegliere”. Cita quindi il filosofo Remo Bodei, per il quale «la religione è un antidoto alla banalità; l’ateismo, infatti, rischia di essere triviale, in quanto nega non soltanto la trascendenza come alterità, ma la possibilità di far diventare questo mondo un’altra cosa». Tale preambolo serve a far dire a Roat che Nietzsche, «oltre che mistico.. si può considerare homo religiosus.. (poiché attraverso Zarathustra) intende senza ombra di dubbio rivelarsi quale annunciatore di un inedito, quinto vangelo, da contrapporre ai quattro cristiani», pur rimanendo la sua una religiosità laica.
In che senso “quinto vangelo”?
Non è un caso, sottolinea Roat, che Zarathustra inizi la sua “missione” a trent’anni, come Gesù, solo dopo aver trascorso dieci anni di eremitaggio, paragonabili al deserto del nazareno, tra l’altro avendo come unici compagni un’aquila e un serpente: animale celeste la prima e terrestre il secondo, quasi a voler sottolineare le due nature di Cristo, o almeno il suo essere ponte tra i due mondi. Nel febbraio del 1883 Nietzsche stesso informò il suo editore che questo scritto era per lui un quinto Vangelo. L’annuncio “Gott todt ist!” del profeta era già comparso un anno prima in Die fröhliche Wissenschaft, “La gaia scienza”, in cui aveva scritto: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!».
Ma, se è morto, significa che prima era vivo.. quindi?
In Ecce Homo Nietzsche precisa in cosa consista il suo ateismo: «Non conosco affatto l’ateismo come risultato, ancor meno come avvenimento: esso mi è congeniale per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo irriverente per accontentarmi di una risposta così piattamente grossolana. Dio è una risposta piattamente grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori – in fondo persino un grossolano divieto nei nostri confronti: non dovete pensare!».
Questo manifesto è troppo importante per lasciarcene sfuggire la portata: a chi è curioso, problematico e pensante non è concesso di credere?! Non è vero forse l’esatto contrario?
Oggi, considerati i passi da gigante che ha fatto la cultura di massa, non è facile essere credenti se non si è curiosi, se non si problematicizza ogni cosa o quasi e, soprattutto, se la nostra non è una fede pensata: «(siate) sempre pronti a dare risposta a chiunque vi chieda il motivo della speranza che è dentro di voi», come la Bibbia “laica” (pubblicata da Einaudi sotto la cura di Enzo Bianchi)traduce la celebre esortazione della Prima Lettera di Pietro (3,15-17). Tornando alla “morte di Dio”, lo psicanalista Luigi Zoja evidenzia nel suo Psiche come «Per Nietzsche, gridare che Dio era morto significava, paradossalmente, proclamare che il problema di Dio era tragicamente vivo». Roat prosegue mostrando due scelte analoghe fatte da Gesù e Zarathustra: i compagni ai quali rivolgere i loro discorsi e l’utilizzo della parabola come mezzo narrativo. Ed è attraverso quest’ultima che il profeta nietzschiano illustra il passaggio da spirito a cammello, da cammello a leone e da leone a fanciullo, figura quest’ultima centrale in Zarathustra come in Gesù, il quale ci ammonisce a tornare bambini per entrare nel suo regno (cfr. Mt 18,3). Curioso poi che l’Anticristo si concluda con un’esortazione a variare il nostro modo di conteggiare il tempo: non più a partire dalla (presunta) nascita di Gesù, ma dalla sua morte, non però quella in croce, ma dall’oggi, in cui Nietzsche “constata” che “Dio è morto”, momento che il Nostro considera «Trasvalutazione di tutti i valori!».
Cos’ha da dire a noi, oggi, questo explicit?
«Fra tutte le grandi doti di Nietzsche non ve n’era nessuna, più di quella del genio religioso» ebbe a scrivere Lou Andreas-Salomé, scrittrice e psicanalista tedesca di origine russa con la quale il Nostro stava per sposarsi, nonostante i diciassette anni che li separavano, ma la proposta di nozze fu da lei rispedita al mittente.. Non solo, la Salomé nella sua biografia di Nietzsche scrisse che solo alla fine venne a galla «con assoluta chiarezza fino a qual punto l’impulso fondamentale che domina la sua natura e la sua conoscenza sia quello religioso.. il tragico conflitto della sua vita, – il conflitto di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare». Parlando di Zarathustra e di Nietzsche, Roat sentenzia: «credo lui rimanga pur sempre un animale teologico ed escatologico. Al pari del suo ideatore, che – attraverso la figura dell’oltreuomo, la formula della volontà di potenza quale motore di tutto e la visione dell’eterno ritorno dell’uguale – va in cerca di un senso rispetto all’esistere; o meglio: va in cerca del senso. Certo, entrambi negano la ragionevolezza di ogni teologia e/o escatologia, eppure non possono fare a meno di praticarle».
Sembra insomma che la terra cui il Nostro chiede di essere fedeli non sia mai un traguardo raggiunto una volta per tutte, anzi, per dirla con il noto adagio dei pellegrini: “la mèta è il cammino”..
Proprio così. Lo Zarathustra nietzschiano è forse una figura giovannea prima che cristica: «Wer bini ich? Chi sono io? – si domanda infatti il profeta – Io attendo uno più degno; io non son degno neppure di infrangermi contro di lui». Sembra insomma che a parlare sia il Battista, più che il Fürsprecher des Übermensch, il portavoce/avvocato dell’oltreuomo. Come sottolinea anche Massimo Cacciari, Nietzsche distingue tra Gesù (quanto fatto dall’uomo) e Cristo (la figura teologica generata dai suoi dopo la morte-risurrezione). Gesù che Nietzsche paragona in qualche modo a Dioniso: si pensi solo al valore del vino per entrambi, o alle sofferenze cruente che dovettero subire (Bacco fu torturato e ucciso dai Titani), per poi risorgere, recandosi uno nello Sceol, l’altro nell’Ade. «Per non parlare dell’entrata del Messia nella città santa degli ebrei a cavallo di un asino – prosegue Roat – : animale eminentemente dionisiaco». Aggiunge poi che, se col passare del tempo Dioniso fu dimenticato, non così fecero gli artisti: «da Lorenzo il Magnifico a Hölderlin, da Caravaggio a Johannes Schilling». Nietzsche non fece altro che, da artista qual era –diceva infatti: «Abbiamo l’arte per non morire di verità» e «Senza musica la vita sarebbe un errore»– riesumare Dioniso..
Tra gli scritti di Nietzsche figurano anche i cosiddetti “biglietti della follia”, di cosa si tratta?
Nell’autunno del 1888 inizia a scrivere lettere «aggressive e megalomani», preludio di quel 3 gennaio dopo il quale tali lettere diventeranno ancor più deliranti, appunto i “biglietti della follia”. In essi chiama la moglie di Wagner “mia amata” e afferma di essersi incarnato in Buddha, Dioniso, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Voltaire, Napoleone e, forse, suo marito Richard Wagner! Se otto di questi sono siglati Dionysos, in altrettanti la firma è invece Der Gekreuzigte, “Il Crocifisso”, quasi a sancire, pur in un momento simile, l’estrema contraddizione del suo pensiero. All’amico compositore Peter Gast ne invia uno in cui scrive: «Il mondo è trasfigurato, perché Dio è sulla terra», mentre a Cosima, al tempo già vedova, dice di «essere pure stato appeso alla croce».
Ultime sferzate di un pazzo o profezie provocatorie?
Un ciarlatano cercò di convincere la madre che la sua schizofrenia era dovuta ad un suo allontanamento dal cristianesimo, e che il suo ritorno alla fede lo avrebbe fatto guarire. Sarà lui stesso a smascherarlo, rompendogli un tavolo in faccia! Trasferitosi nel 1897 assieme a Elisabeth nella casa di Weimar, dove la sorella aveva fondato tre anni prima il Nietzsche-Archiv, fu costretto a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica di Basilea, per poi essere trasferito a Jena, manicomio che lascerà per la casa di famiglia di Naumburg, in cui vivrà fino alla morte della madre, dopo di che ad assisterlo sarà la sorella Elisabeth, fino alla propria di morte, quel 25 agosto del 1900, all’età di cinquantasei anni, per alcuni causata da un’infezione dovuta alla sifilide, per altri conseguenza diuna malattia psichica ereditaria, per altri ancora dovuta a una polmonite. Nonostante il suo dichiarato e profondo ateismo, per volontà di parenti e amici venne seppellito con cerimonia religiosa nel cimitero di Röcken, in una semplice tomba con due statue ai lati che lo ritraggono nudo, ma con un cappello sui genitali!?
Considerata l’eccentricità del personaggio, beh, c’era da aspettarselo..
Nietzsche termina il prologo dello Zarathustra facendo dire al suo profeta: «prego il mio orgoglio di seguire sempre la mia intelligenza! E se un giorno la mia intelligenza mi abbandonerà – ahimè le piace fuggir via! – possa almeno il mio orgoglio volar via con la mia follia!». E conclude, «Così cominciò il tramonto di Zarathustra». Triste auto presagio, il Nostro morirà infatti in preda alla follia, dal latino follis, un sacco o contenitore “pieno d’aria”. Il già citato Pesaola, in arte Zap Mangusta, si chiede nel suo podcast: «se lo Zarathustra di Nietzsche scendesse oggi dal suo monte, e si presentasse in un mercato delle nostre città, cosa direbbe?». E risponde che, notando come gli uomini si comportano, cambierebbe un po’ delle sue celebri definizioni: osservando che sono attratti in particolare dal cibo, parlerebbe di Volontà di opulenza, del Super uovo e intitolerebbe la sua opera Ecce Yomo! Non si scaglierebbe più contro Apollo ma contro il pollo, la cui carne bianca deve mitigare i frutti dell’attuale opulenza. I livelli cui è giunta la tecnologia gli farebbero esclamare: Transumano, troppo transumano! Soprattutto, però, sarebbe colpito dagli sguardi delle persone, non più rivolte verso l’Alto ma verso il basso, là dove sta il loro smartphone o dov’è situato il ventre. «Quanto sono difficili da digerire i nostri simili».
Per rimanere fedeli al parallelismo nietzschiano, senza paura di far un torto al profeta di Röcken – come lui stesso vorrebbe – , chiediamoci allora: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).
Recita
Maria Angela Magnani, Cristian Messina, Nicole Macrelli, Stefano Rocchetta
Musica di sottofondo
R, Wagner. Siegfried Idyll, WWV 103. Musopen.org. Diritti Creative Commons
R.Wagner. Die Walküre, WWV 86B - Ride of the Valkyries. Musopen.org. Diritti Creative Commons
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