Salmo 16(15) con il commento di Luca Gaviani



Dal libro dei Salmi
Salmo 16 (15) – Dio, sommo bene
(Salmo reale, messianico, profetico, di fiducia) 

Testo del Salmo
1 Miktam. Di Davide. 

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. 2 Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene». 3 Agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore. 4 Moltiplicano le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero. Io non spanderò le loro libagioni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi. 5 Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. 6 Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda. 7 Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio animo mi istruisce. 8 Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non potrò vacillare. 9 Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, 10 perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. 11 Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.  

 

 

 

Canto
Sorelle Clarisse del Monastero Natività di Maria, Rimini

Musica di sottofondo al commento
Libreria suoni di Garage Band

Meditazione
Luca Gaviani

Commento
Siamo carne di carmi, salme di salmi. Scritto di getto e di pietra, il Salmo 16 ci seduce, lasciandoci macerare in salamoia: linea come di una mano attraversano la fronte, tra desertici detriti, sulle rotte del tavolo, mandandoti un bagliore intorno all’angolo destro della bocca, il sedicesimo salmo. Paul Celan scrive questa poesia, In-cantonante, come una catena che lo tiene libero, un incanto incantante, nato, cantato e accantonato, poco prima di gettarsi nella Senna, e trovare così la morte per annegamento. Il salmo toglie il respiro, è un’apnea a profondità siderali, è gettarsi fra le braccia di un Dio come di onde che ti trattengono il fiato. Davide lo incide con la cetra e con la fionda, strumenti simili, che pretendono dal corpo e dalla mente, un canto su corde tirate. Il salmo va intrapreso e ascoltato più che letto, con la prepotenza e la presenza audace della poesia più tenace. Ripetuto, ripassato, ruminato, rutilando il verso a senso unico, esso va imparato a memoria e rimarginato, rielaborato, riscritto e ascritto come un reato, permeato alla vita come un vestito stretto. Per questo il salmo va vissuto, sviscerato e svezzato, rivoltato e riletto per carpirne il significato, per capirne l’ombra terribile del suo stato. Per essere conosciuto va perpetrato, appioppato perché appropriato, donato perdonato, dotato di uno iato dovuto e dato da Dio. Il salmo va portato, osteggiato nel deserto dei desideri, ostaggio di un inserto di ieri, accompagnato nelle vertigini del silenzio e nelle voragini dell’assenza, cosicché la voce possa emergere ed ergersi come una tenda, un velo che elevi il sole a sagoma, ad angoscia febbrile, ad anima con le mani imminenti e ammanettate, come un’arma che manipoli i monopoli, contro la fiammeggiante tirannia di una luce, che brucia gli occhi e le coscienze, nella solitudine bramosa e salmastra di un incontro scontro con il mistero più vero, quello che avviene dentro. Meditandolo senza scampo e non mediandolo con media a inciampo, il salmo mostrerà la prescrizione, che presuppone il rinunciare pienamente a capirlo, a chiarificarlo, l’iscrizione intraducibile che ci pone attoniti a contemplarlo, da stolti, senza per questo arrivare mai ad una spiegazione che ci convinca, da accoliti accolti, che ci aggradi, ma sempre scendendo o salendo per gradi e per sempre nuova trasposizione, traduzione, chiarificazione, buio che ci riguardi. Non è mai troppo tardi per un prestito privilegiato di un prestigiatore, che fa presto a sparire in una protesta. Il Salmo Sedici ci dice di sederci come un amuleto ammutolito, e lasciarci andare e toccare dalle parole che non sono scritte, ma decrittate, criptate sulla pelle come un tatuaggio invisibile. Il Salmo Sedici è il sigillo alla nostra salvezza, è il contatto incorruttibile, il confronto raffinato tra una bocca che abbocca e un bacio che si ciba delle nostre labbra. «1 Abitami Dio, nelle beatitudini devote braccami e abbracciami, nei tuoi amati e immolati talami tirami a te, innamorami. Ogni parola salmodiata è amata, è un Dio soave che l’ha sussurrata, è un grido gravido di una lode che si ode e già delude». Ogni sillaba basta a rimanere basiti, sui busillis più basici e bastardi. Se ogni traduzione è tradire la tradizione, è trainarsi e detrarre l’addizione, la Bibbia è una tradotta che porta noi soldati ad una guerra contorta, scortati da una corte che non si scorda, ma invischiati in una scia che ci lascia viziati. È come auscultare il cuore di Dio che si cura di noi, sentire nelle gole divine un vocalizzo che si faccia canzone, cercare nei cieli celesti qualcosa che resti, non sapendo che gli angeli sono uccelli che non stanno mai fermi. L’immortalità è l’immoralità del poeta che gioca con chi c’è ma non si vede, con chi è ma non ci crede, con chi salta nella Senna e chi sa il selah, ma perché e per chi scatta e scarta? «2 Dico a Dio, io sono tuo e tu sei mio, ogni bene è un bisogno che sogno in te. 3 Quanti i santi che in festa infestano la terra, affetti che t’infettano, che ti fanno a fette, sedicenti e seducenti. 4 I dolori degli altri déi delirano in relitti, munizione di anime in azione, le mie labbra si librano in libazioni contro i loro nomi. 5 Dio è destino, eredità che arreda, calice che cielo ricalca, sorte che sostiene i tesori. 6 Attratto e astratto, sono estratto e toccato da una dote che mi rende edotto. 7 Dirò bene dell’amore che mi ammonisce, ammansisce, ammaestra le mie maestranze, di notte si torna dove sei nato. 8 Io ho sempre posto per l’amore corrisposto, e non sarò smosso dalla somma che si fa soma, dai conti che non tornano ai re che restano, perché di fianco so financo quanto ti è costato il mio costato. 9 Perciò il cuore corre a perdifiato, ingoia la gloria, ha fegato per ricomporre e riaccompagnare il mio corpo in porto, è grave e gravida la vita di Jahvè. 10 Il mio timore tu non lo tirare mai tra i morti, non sia fatta d’ossa la mia fossa distrutta e infedele. 11 Invitami ed elevami alla via della vita che avviene, sul tuo viso sovviene la soavità, sulla tua faccia si riaffaccia la fiducia, eterne le tue vene tengono neve lieve e nuove visioni ultraterrene». Il salmo ingiunge la gioia, aggiunge gemiti a giaculatorie, gesticola con uno stage di gesta e stratagemmi, ma più precisamente presagisce, precetta, profetizza, promette e ripristina, come reni che di notte ritornano a purificare e ad ammansire l’anima. Nello Zohar, il testo più importante della Cabbala ebraica, è citato il versetto sette del salmo versatile: l’anima va, vaga e torna alla sua radice come le compete, come le comete che, di notte, in ogni cosa tornano a casa. In questa ascesa, le anime incontrano Surya, un aiutante di Dio, che le avvicina e le annusa, poi le prende in una volta sola, come se le inghiottisse, ingravidandosi come una donna. Infine, fa uscire fuori le anime e le partorisce, come in principio, come nuove. Il Salmo Sedici permette così un ritrovamento e un rinnovamento quotidiano, come un risciacquo alla fonte del sacro. Necessario e utile sarebbe quindi cantarlo ogni giorno, costantemente, perché queste parole non sono fatte di lettere, ma di fiamme che purificano, di creta che ricrea il creato continuamente, di bellezza estesa ed estenuante, che fa credere per crescere.

 

 

Scarica la nostra App su