Vangelo di Giovanni: Introduzione



Introduzione al Vangelo di Giovanni
«In principio..», così comincia l’intera Scrittura, con Genesi; «In principio..», così comincia il Vangelo di Giovanni, evidente richiamo al nuovo grande inizio, reso possibile dal Logos, il Verbo, la Parola, Gesù. Siamo davanti al primo indizio, fra i numerosissimi, che ci dice come questo Vangelo non sia comprensibile se non alla luce del Primo Testamento, di cui è intriso. Il celebre Prologo,  l’introduzione a questo Vangelo – entratavi però solo successivamente –, è una meravigliosa meditazione su quanto avverrà in seguito: Cristo è anzitutto quella parola-azione (che noi oggi distinguiamo, ma che in Lui sono una cosa sola) che ha creato tutto sin dall’inizio. È quella luce, di cui il Battista era testimonianza, che “le tenebre non hanno accolto”. Il verbo greco katalambano, che noi traduciamo con “accogliere”, ha in realtà più significati: “vincere, afferrare e capire”.. insomma: Cristo-luce non è stato vinto né afferrato né capito! Gesù è poi Parola che si è fatta nostra carne – concetto inaccettabile per tanti credenti, ebrei e musulmani su tutti –, “piantando” la sua «tenda in mezzo a noi», finissimo richiamo alla presenza di Dio in mezzo al popolo d’Israele, prima in forma itinerante (attraverso il deserto), poi fissa (nel Tempio di Gerusalemme); come a dire che la vera arca dell’alleanza è Lui. Da presenza di pietra, nel Decalogo prima e nel Tempio poi, a presenza di carne, la sua; infine presenza nel nostro “cuore”, grazie allo Spirito donatoci: il Signore non sta mai fermo, eppure ci ostiniamo a volerlo bloccare in tante pretese e presunti schemi.. Altra finezza di Giovanni: il verbo greco utilizzato per “mettere la tenda” è eskénosen, la cui radice sta nelle tre lettere s k n: siccome gli ebrei non potevano pronunciare il nome di Dio, utilizzavano l’espressione shekinà, cioè “presenza”, la cui radice è nelle medesime lettere s k n: la presenza divina tra gli uomini adesso è Gesù. Fino ad ora abbiamo parlato di Giovanni, ma siamo sicuri che l’autore di questo Vangelo sia lui? Il celebre biblista Bruno Maggioni, morto nell’ottobre 2020, così si esprimeva nella sua introduzione per la Bibbia delle edizioni San Paolo: «L’attribuzione tradizionale (a partire da Ireneo di Lione, nel 180 d.C.), secondo cui il quarto vangelo sarebbe stato scritto da Giovanni, figlio di Zebedeo, è oggi difficilmente sostenibile..», dunque? I cuori deboli si siedano, proviamo a fare un po’ di chiarezza: lo scritto che noi oggi possediamo è frutto di una storia “a più mani”, la cosiddetta “scuola giovannea”, che è nata intorno all’evangelista, quel «discepolo che Gesù amava». Ma chi è colui che Gesù amava? Per alcuni Lazzaro, per altri l’evangelista Marco, per altri ancora non sarebbe mai esistito, ovvero uno stratagemma letterario per indicare il credente modello. Ma il «discepolo che Gesù amava» è l’unico tra gli apostoli principali – ecco l’indizio interessante – a non essere mai nominato. Si tratta insomma di Giovanni. Ma se andiamo ai versetti 30-31 del capitolo 20, leggiamo: «fece molti altri segni.. scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Tutto lascia intendere di trovarci in presenza della parola “fine”.. e invece no: ecco il magnifico capitolo 21, quello del “ristabilimento” di Pietro, tanto per intenderci: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo..». Niente, c’eravamo cascati! Cos’è successo? Si tratta evidentemente di un Vangelo incompiuto, che altri hanno concluso. Uno dei più grandi studiosi del quarto Vangelo, l’americano Raymond Brown, propone più tappe per la nascita di questo scritto, dalla prima in forma orale all’ultima “penna”, utilizzata appunto dal redattore finale del capitolo 21. Sulla data dello scritto gli esperti dicono tra l’80 e il 110 d.C., sbilanciandosi sull’anno 90 circa, mentre per il luogo si opta soprattutto per Efeso. E i destinatari? I cristiani della seconda generazione, per irrobustire la loro fede. Diverso dai tre sinottici per mille motivi (geografici, cronologici, contenutistici, linguistici e via dicendo), Giovanni rielabora ed esprime il suo “sguardo su Gesù” in modo libero e profondo, strutturando la narrazione intorno a due grandi blocchi narrativi: il cosiddetto Libro dei Segni, ovvero la rivelazione di Gesù al mondo (1,19-12,50), e quello della Gloria, che si ri-vela nella passione-morte-risurrezione (13,1-21,25), blocchi in cui è stato inserito successivamente il Prologo (1,1-18). L’evangelista ci mostra un Cristo che, irrompendo nel mondo come vera luce, costringe l’ascoltatore a prendere posizione: inizialmente di fronte alle deviazioni che minacciavano il cristianesimo nascente, oggi (e sempre) di fronte al nostro vero volto, capace di specchiarsi solo in quello di Gesù. Tema cruciale di Giovanni è infatti la libertà, chiaramente espresso al capitolo 6 in cui, dopo aver detto ai discepoli «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6,56), il nazareno si sente rispondere, da molti dei suoi: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (6,60). Infatti «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”» (6,66-67). Una rapida occhiata alle frequenze parrocchiali di oggi, sembra proprio confermare la durezza della sua parola, capace tuttavia di andare oltre le nostre fredde e stupide statistiche. Diversi studiosi sottolineano che tale Vangelo è costruito come un grande processo: numerosi testimoni, diversi interventi e il giudizio finale, la crocifissione di Gesù, in realtà un giudizio semi-finale, dato che l’evangelista ci mostra la croce come un podio, il trono sul quale Cristo regna glorioso. Certo è che il figlio di Zebedeo “non parla semplice”, il suo sguardo su quanto ci riferisce è infatti simbolico, perché sim-bolica (unitiva) è l’attività di Dio, come dia-bolica (divisiva) è quella del nemico di Dio! Guardare la realtà in modo simbolico è allora vederla come la vede il Signore, che ha uno sguardo d’insieme, non frammentario e selezionatore come il nostro, incapace di tenere insieme, sempre e comunque, l’intera storia, passata, presente e futura. È in tal senso che va letta «l’ora» di Gesù, la sua morte, il momento della manifestazione della sua «gloria», sorta di parto al maschile, momento che permette all’umanità nascitura di passare dalle tenebre alla luce. Solo il simbolo ci permette di guardare qualcosa scorgendovi “altro”. L’intera vita religiosa si fonda sul simbolo. È con questo sguardo che Giovanni – che usa ben sette termini diversi per indicare la “visione” – vuol parlare del mare e dell’acqua, del binomio luce-tenebra, della tenda e del tempio, del pane e del vino, delle coordinate spaziali alto-basso, della porta, del vento e del pastore, dell’agnello e dell’esodo, ecc.. È con questa logica che utilizza i numeri, ad esempio il tre: come le pasque narrate (rispetto all’unica menzionata dai Sinottici); come le avventure di fede che ci propone nelle figure di Nicodemo, della Samaritana e del funzionario regio, rispettivamente l’ebreo, l’eretica e il pagano; e via dicendo.. Per tali ragioni è fondamentale il concetto di segno, parola che Giovanni utilizza per dire miracolo, indicando in tal modo che in Gesù tutto si realizza, o meglio si compie; l’evangelista infatti ne mostra sette (altro numero chiave): dalle nozze di Cana all’apparizione nel cenacolo, in cui gli Undici si stavano rifugiando dopo la morte del loro maestro. Per questi ed altri motivi, leggere Giovanni come un testo “spiritualistico” è davvero fuori luogo. Allora ringraziamo l’evangelista e la sua “scuola”, che ci hanno regalato questo gioiello letterario, «affinché noi crediamo»..         

 

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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