Giovanni 10,11-18: "Appartenenza reciproca". (Commento di don Davide Arcangeli)



Parola del Signore
Dal Vangelo secondo Giovanni 10,11-18

Testo del Vangelo
In quel tempo, Gesù disse:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Recita
Don Matteo Bottesini

Musica di sottofondo
P.H.Erlebach. Halleluja. Performer Michel Rondeau. Diritti Creative Commons. musopen.org

Meditazione
Don Davide Arcangeli

Meditazione
La liturgia ci porta all’interno del discorso del buon pastore, al c. 10 del Vangelo di Giovanni. Qui Gesù sviluppa in modo particolare la metafora del buon pastore, applicandola alla propria missione di inviato dal Padre per dare la vita al mondo e raccogliere tutti i figli di Dio dispersi nell’unità di un solo gregge e sotto un solo pastore.
La caratteristica peculiare del buon pastore è che egli dà la vita per le sue pecore, a differenza del mercenario che le utilizza per i propri scopi egoistici. Alla prova dei fatti la totale opposizione tra buon pastore e mercenario si comprende davanti al rischio e al pericolo: il pastore non teme di dare la propria vita perché nessuno dei suoi venga perduto, il mercenario invece fugge per salvarsi la vita. Il dono della vita da parte del buon pastore è la piena manifestazione di quell’amore che lo unisce alle sue pecorelle, frutto della conoscenza reciproca. Il verbo “conoscere” ha qui un’accezione molto forte: indica condivisione di vita e appartenenza reciproca: se tale rapporto sussiste tra il Figlio e il Padre, esso ora si estende alle pecore, che entrano in questa “conoscenza” , intesa come appartenenza esistenziale e amorosa.
Tutto procede dunque per comando del Padre, in virtù del quale il Figlio dona la propria vita e la riprende, allusione alla morte di Gesù e alla sua resurrezione. Non è un gioco, ma la piena rivelazione di una potenza d’amore in grado di vincere il tradimento, l’odio, la violenza e la morte. La morte come consegna dello spirito da parte del buon pastore diviene consegna e dono dello Spirito Santo: l’evangelista vede qui, al culmine della spoliazione del figlio dell’uomo sulla croce, il dono più potente e rivoluzionario, in grado di trasformare il mondo: si tratta dello Spirito Santo, ossia dell’amore che unisce il Padre e il Figlio e muove il Figlio, quale buon pastore, a donare la sua vita per le sue pecorelle.

 

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