Esodo: Introduzione



Il libro dell'Esodo
«Questi sono i nomi dei figli d’Israele entrati in Egitto..», con questo incipit inizia il secondo libro del Pentateuco, che in tal modo si riaggancia alla fine del Genesi (46,27). Se la Bibbia greca lo chiama èxodos, “uscita”, gli ebrei lo definiscono invece shemòt, “nomi”, mutuandolo proprio dall’incipit. Viene chiamato anche il “Vangelo dell’Antico Testamento”, perché come un vangelo annunzia la “buona novella”: l’intervento di quel Dio che chiama e libera! Non solo, sarà anche la nascita vera e propria del popolo d’Israele – che a questo momento fondante tornerà costantemente – , tanto da denominare JHWH “Colui che ha fatto uscire dal paese d’Egitto”, uno dei suoi titoli principali e sorta di secondo nome dato a Dio. Non solo.. Quest’esperienza sarà anche e soprattutto il momento del “fidanzamento col Signore”,  la giovinezza del rapporto con lui (non vale forse per ogni credente?), un rapporto passionale e, come tale, alternanza di continue effusioni, tradimenti e ritorni. Si badi bene, tutto ciò non deve trarre in inganno il lettore contemporaneo, facendogli pensare di trovarsi di fronte ad una teologia ingenua, il libro pone infatti una serie di questioni e interrogativi sempre attuali: “a chi credere?”; “Dio è davvero in mezzo a noi oppure no?”; “è possibile vederlo e conoscerne il nome?”; e via dicendo. I protagonisti di questa grandiosa avventura saranno in primis Mosè, il profeta balbuziente (!?), il fratello Aronne, sua “voce”, sorta di allenatore in seconda, colui che nei momenti difficili cerca di mediare i malumori della squadra nei confronti del mister. E poi Maria, sorella maggiore di quei due capopopolo che, ironia della sorte – o progetto indecifrabile eppur divino – nella Terra promessa non ci entreranno. Alcuni brani biblici presentano l’esodo come un’espulsione, altri invece come una fuga, in ogni caso una liberazione da parte del Signore. Il libro è divisibile grossomodo in tre parti, l’ultima delle quali a sua volta in diverse sezioni. Se la prima parte (Es 1,1-15,21) è incentrata sulla sovranità, e la domanda che la percorre è “chi è il vero sovrano d’Israele, JHWH o il faraone?”, la seconda (15,22-18,27) ha invece per oggetto lo spostamento dall’Egitto al Sinai, dove diversi verbi di movimento (partire, muoversi, viaggiare, accamparsi, spostarsi, ecc..) ne scandiscono la dinamica. La terza (19,1-40,38) si svolge infine tutta al Sinai, chiamato anche Oreb. Come detto è suddivisibile in alcune sezioni: dopo circa tre mesi dall’“uscita” Dio proclama il Decalogo e il Codice dell’alleanza; poi dà le istruzioni per la costruzione del santuario; sei settimane dopo la consegna dei comandamenti ha quindi luogo il celebre episodio del vitello d’oro, per alcuni immagine di una divinità egizia, il bue Api; infine viene costruita la dimora di JHWH in mezzo al suo popolo: un santuario portatile che accompagnerà gli ebrei nei 40 anni desertici, nonché prototipo che servirà da modello per la costruzione del Tempio di Gerusalemme. Si trattava concretamente di un’enorme tenda di lino rettangolare, che custodiva diverse cose atte al culto: l’altare dei sacrifici, il lavacro, la Menorah (il celebre candelabro a sette bracci), il tavolo del pane della presenza, l’altare per l’incenso e il tabernacolo, quel Sancta Sanctorum che, dietro ad un ulteriore velo, celava il cuore del santuario, l’Arca dell’Alleanza, una cassa di legno placata oro contenente le due tavole con le Dieci Parole, un vaso con la manna e, secondo alcune tradizioni, la verga di Aronne miracolosamente fiorita. Il tabernacolo cattolico, val la pena ricordarlo, nasce da qui.. Ma quando il popolo si muoveva, smontando il tutto per poi ripartire? «..quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava, essi non partivano..» (40,36-37). L’incredibile migrazione di questa enorme folla – si parla infatti di circa 600.000 persone, come se si muovesse insieme, nel deserto, l’intera popolazione di Palermo o di Genova! – non può che rimandare ai tanti esodi della storia, che da essa si sono in qualche modo lasciati ispirare: dai primi coloni protestanti che fuggivano dall’Europa, a coloro che ancora oggi continuano a sbarcare sulle coste italiane. Ma dall’Africa, ci dicono gli esperti, è uscito ogni Homo Sapiens, per poi andare ad occupare l’intero globo terrestre. Insomma, dall’Egitto è uscito simbolicamente ognuno di noi. L’Esodo, forse, è soprattutto un cammino di trasformazione: Anselm Grün sottolinea come quelle immagini archetipiche (il roveto, le piaghe, il passaggio del mare o l’acqua scaturita dalla roccia) parlino oggi a ciascuno, della nostra personale trasformazione e umanizzazione, nel diventare compiutamente persone. Emblematica e non casuale, in tal senso, la presenza di Mosè sul Tabor durante la trasfigurazione di Gesù. «La trasformazione – prosegue il monaco benedettino tedesco – è diventata la struttura fondamentale del divino operare.. è sempre un cammino di trasformazione quello che ci aspetta e che dobbiamo seguire». Perché allora non affidarci a quel Dio che «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso»? (Fil 3,21). L’Esodo è però un testo incompiuto, i cristiani vedranno infatti in Gesù, nuovo Mosè, il “compitore” di tale viaggio: la sua Pasqua non sarà semplicemente il “passaggio” dalla schiavitù alla libertà, ma dalla morte alla vita.  E non a caso il Nuovo Testamento userà il vocabolario dell’Esodo: manna, nube, passaggio del mare, pane non lievitato, acqua dalla roccia, ecc.. per parlare del Battesimo e dell’Eucarestia. Non a caso, ancora, l’Apocalisse celebrerà Cristo come Agnello pasquale, o mostrerà i flagelli che colpiscono gli adoratori della Bestia rifacendosi alle piaghe d’Egitto, o farà nuovamente cantare ai seguaci del Risorto il cantico di Mosè o, infine, parlerà di un mondo nuovo attraverso la scomparsa del mare..      

  

 


                  

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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