Genesi: Introduzione



Il libro della Genesi
«In principio..», in ebraico bereshît, in greco ghénesis, “nascita, origine”, è il principio della creazione di tutto e di tutti, della Bibbia, del Pentateuco, della Storia della salvezza, del dialogo tra Dio e l’uomo, che avrà la sua riedizione definitiva nel prologo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..» (Gv 1,1). Un principio che – sostiene il cardinal Ravasi – «più che un inizio è un fine, (ma) non una fine (dato che) L’autore non vuole tanto descrivere ciò che è avvenuto alle origini.. (ma) il progetto terminale, quello verso cui tutti dovremmo camminare, un mondo in cui ci rispecchiamo». Bereshît in ebraico non significa infatti solo principio cronologico, ma anche “primizia”, ovvero la cosa più fresca e preziosa che si offre durante la grande festa di primavera, ragion per cui potremmo tradurre questo vocabolo con “bellezza, la prima cosa, quella più nobile”, che il Creatore sorpreso vede come tôv, buona, splendida, meravigliosa, buona e felice. Se sottolineiamo invece “il primo momento” cronologico, per così dire, allora dobbiamo affermare che Dio – «(creando) il cielo e la terra.. informe e deserta» – non crea dal nulla, concetto quest’ultimo che gli orientali proprio non “concepiscono”. Ma qui fede e scienza non possono fare a meno di incrociarsi: riguardo alla prima, il giornalista Bill Bryson ci dice che, «Se immaginiamo di comprimere i quattromilacinquecento milioni di anni di storia della Terra in una normale giornata di ventiquattro ore.. Gli esseri umani compaiono un minuto e diciassette secondi prima della mezzanotte». Se facciamo altrettanto con l’intero universo, comprimendolo però in un anno, l’homo sapiens fa la sua comparsa alle ore 23:58 del 31 dicembre! L’uomo è arrivato quindi piuttosto tardi.. Ma ci è arrivato “per caso” o Qualcuno lo ha voluto e lungamente atteso? Le probabilità che siamo qui “per caso” sono paragonabili, secondo l’astronomo Fred Hoyle, a quelle di una tromba d’aria che, attraversata una discarica, lascia alle sue spalle un jumbo jet perfettamente funzionante! Lo scienziato e il teologo allora, pur osservando da punti di vista diversi, concordano sull’oggetto della loro ricerca: l’essere umano. E la vita di quest’ultimo si muove su due coordinate, lo spazio e il tempo: se lo spazio in cui ci è dato di vivere è la Terra, il tempo è simboleggiato anzitutto dal figlio, colui che, proseguendolo, sfida e vince il nostro. Ecco perché il Figlio «si fece carne e pose la (sua) tenda fra noi» (Gv 1,14), piantandola sulla nostra terra. È per questo che la Bibbia evita di parlare di Adamo come fosse un nome proprio, in ebraico c’è infatti una parola che è frutto della fusione di due elementi: l’articolo ha e ‘adam, che probabilmente si ricollega alla radice “terra” (‘adamà) e al suo colore, che in oriente è rossastro. La traduzione più corretta è pertanto “l’Uomo”, per dire che in Adamo ci rispecchiamo tutti, perché «Adamo è mio padre, sono io, ed è mio figlio», per dirla con Pascal. Ed Eva, “la vivente”, è in realtà l’altra faccia di Adamo: l’uomo ebraico è detto infatti anche ’ish, e per il femminile si aggiunge semplicemente la desinenza –ah, ’ish e ’isshah, maschile e femminile dello stesso nome, ormai capaci di starsi di fronte l’un l’altra, ke-negdô, “alla pari”, “gli occhi negli occhi”. Di costoro il Creatore non dice però che sono tôv, ma tôv me’od, (cosa) “molto buona, molto splendida.. molto felice”. Per quanto riguarda la sua struttura, Genesi è divisibile anzitutto in due grandi tavole, la prima delle quali comprende gli undici capitoli iniziali, in cui il protagonista è “l’Adamo”, l’Uomo in generale; nella seconda, invece (capp. 12-50) – divisa in tre cicli – , ecco il focus su un uomo preciso, con rispettivo passaggio dall’umanità ad un popolo, quello d’Israele, nato dalla fede dei patriarchi, primo fra tutti Abramo (dall’assiro-babilonese âb râm, “padre eccelso”, anche se la Bibbia gli dà il significato di “padre di molte genti”), poi Giacobbe (capp. 26-36) e infine Giuseppe (capp. 37-50). La prima tavola è poi costruita attraverso due metodi letterari diversi: la genealogia e la narrazione teologica. Entrambi i metodi sono legati da una celebre formula, che in tutto il testo ricorre ben undici volte (facendo di esso un’unità letteraria), si tratta della formula delle cosiddette toledòt, letteralmente “quello che è stato generato da..”, che in alcuni casi introduce una genealogia (cioè un elenco di discendenti), in altri una narrazione (relativa ai discendenti della persona cui si fa riferimento). Quest’ultima è decisiva, aspetto che va ribadito soprattutto oggi, in una società in cui il racconto viene immediatamente bypassato in favore del suo contenuto, e ciò vale anche durante la proclamazione liturgica dei testi, che sono prima di tutto racconti, e come tali vanno ascoltati! E un testo narrativo, costruito in modo da coinvolgere il lettore – vero protagonista – , non “dice tutto”, perché vuole sia il lettore (o ascoltatore), con la sua immaginazione, a colmare quei vuoti che il narratore volutamente lascia. Siccome leggere significa anzitutto immaginare, ecco «i punti di massimo coinvolgimento – afferma il teologo Marco Tibaldi – i cosiddetti bivi narrativi.. (quelli in cui) occorre fermarsi e ascoltare le proprie reazioni interiori». Un modo per dire che la storia di Abramo, o di chi per lui, è infondo anche la mia che leggo e ascolto. Se lui ha agito così in quel contesto e in quel modo.. io cosa faccio, adesso e nei bivi narrativi della mia storia? Questo coinvolgimento offerto dal testo è cruciale per il disvelarsi della vera immagine che abbiamo di Dio: «(occorre infatti) prosegue il già citato Tibaldi – superare uno dei più poderosi fraintendimenti del testo biblico. Il ritenere cioè che nell’Antico Testamento si riveli il volto di Dio giusto e vendicativo mentre nel Nuovo, finalmente, compare la misericordia di Dio. Dio è uno e la sua unità si rivela proprio nella costanza dei suoi atteggiamenti verso l’uomo. Semmai è questi che ha capito a poco a poco il suo vero volto e l’ha descritto in modi parziali, maturando in un lungo cammino, l’esatta percezione dei suoi lineamenti». Ma chi è “l’autore” del libro della Genesi? Si tratta di un’opera composta da varie tradizioni, chiamate iahvista (la più antica, risalente forse al tempo della monarchia, la prima messa per iscritto tra le antiche tradizioni locali e tribali), elohista e sacerdotale (l’ultima, successiva alla caduta di Gerusalemme nel 587 a.C., che diede il volto definitivo al libro della Genesi), intrecciatesi fra loro nel corso dei secoli. Questi tre “autori” si servirono però di diverse fonti, attingendo dalle tradizioni dell’Antico Vicino Oriente, soprattutto dalla Mesopotamia, dall’Egitto e dalla regione fenicio-cananea, zone in cui erano già presenti opere quali Enuma Elish (in accadico “quando dall’alto”), che ispirò la cosmologia di Genesi, o l’Epopea di Gilgameš, che diede invece origine al racconto del peccato originale. E ciò avvenne perché ci sono diversi modi e angolature per studiare l’uomo: il mito – non da intendersi tuttavia come “favola” –, prima via per parlare del mistero, di ciò che è difficile a dirsi..; quindi la storia, non però un resoconto giornalistico, ma storia esistenziale, sempre e inevitabilmente viziata dal contesto in cui ha luogo; poi la sapienza, sorta di atteggiamento fondamentale che l’uomo biblico assume nei confronti della realtà; infine la letteratura, fatta di mani, sguardi e sensibilità diverse. Alla luce di tutto ciò è allora possibile interpretare correttamente ad esempio la creazione dell’uomo, colui che è sì fatto di terra e polvere, ma allo stesso tempo riceve la neshamah, quel “respiro, alito di vita” che la Bibbia attribuisce solo, e per ben 24 volte, a Dio e all’uomo. È alla luce di ciò che possiamo interpretare il racconto della caduta (da cui origina una violenza che con Caino e Abele diventa sociale), che il teologo olandese Carlos Mesters definisce “un grande (e) collettivo esame di coscienza”, che l’intera umanità è chiamata a farsi; esame in cui l’albero simboleggia la vita stessa e la nostra libertà di fronte ad essa, mentre il serpente è infondo l’idolo, solo successivamente identificato col diavolo. Interessante, a tal proposito, il fatto che l’uomo biblico non distingua l’umanità – come facciamo noi oggi – tra credenti e non, ma tra credenti e idolatri: l’essere umano è fatto per credere, non può farne a meno! Il punto è “in cosa” sceglie di credere.. nell’idolo o in quel Dio che, diversamente da quanto si pensi, non infligge alcuna punizione (dato che questa è conseguenza delle nostre scelte), ma è disposto immediatamente a coprire la nostra nudità, con quelle «tuniche di pelli» (Gn 3,21) che sono simbolo della sua premura paterna e materna, la stessa che, da Giacobbe in poi, lo vedrà scegliere “il secondo”, o meglio “l’ultimo” e tutti gli ultimi della storia. Il recupero della nostra immagine divina è allora solo cominciato, ma l’immagine di Dio scolpita in noi, la sua foto più fedele, è la nostra capacità di amare..                                              

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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