Introduzione al libro dell'Apocalisse di san Giovanni apostolo
«Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve..». «Rivelazione – dal greco apocalyptein – di Gesù Cristo..»: l’incipit dell’ultimo libro della Scrittura ci invita a “togliere il velo”.. ma da cosa? Facciamo un passo indietro, collocando questo libro all’interno dell’apocalittica, quella corrente teologica e letteraria che si sviluppa in Israele già col libro di Daniele e si estende, fino ad uscire dalla Bibbia canonica prendendo corpo in diversi testi apocrifi. Tale corrente aveva come obiettivo quello di dare una risposta di fede, in particolare nei momenti più dolorosi e umanamente inaffrontabili. L’apocalittica è fiorita quasi sempre in momenti di crisi, sia storiche che ideologiche, ragion per cui rifiuta il presente, che vede unicamente sotto il segno del male. Israele prima e la Chiesa poi potevano insomma vacillare di fronte a prove troppo dure; ma non è infondo il rischio che corriamo anche oggi, anzi, oggi più che mai?! Per quanto riguarda il suo autore, l’Apocalisse – libro che ha faticato un po’ ad essere accolto nel canone dei testi ispirati – è attribuita ad un giudeo-cristiano di nome Giovanni, che la tradizione solo successivamente ha identificato con l’evangelista, ma su questo gli esegeti contemporanei si dividono: se l’autore del quarto vangelo (opera scritta “a più mani”) sia il medesimo dell’Apocalisse e delle Lettere “di Giovanni” è dunque cosa discussa, «ma un primo dato – afferma il filologo don Carlo Rusconi – ci dice che oltre la metà delle parole che figurano nell’Apocalisse, sono attestate pure negli scritti “giovannei”. Occorre poi tener conto del fatto che il genere letterario delle Lettere è diverso da quello dell’Apocalisse e da quello del vangelo. Di incontrovertibile c’è l’analogia tra le apparizioni di Gesù risorto e quanto propone il quinto capitolo dell’Apocalisse!». Chiunque esso sia, nel prologo si autodefinisce “profeta”, un visionario, che, val la pena ricordarlo, non è uno che prevede il futuro, quanto piuttosto colui che, parlando a nome di Dio, interpreta il presente. Secondo sant’Ireneo di Lione il redattore avrebbe elaborato il testo verso la fine del I secolo, intorno al 95, nell’Isola greca di Patmos in cui era esiliato, per riprendere successivamente il suo lavoro a Efeso. Questo scritto, dal chiaro tono liturgico, è divisibile grosso modo in due parti, incorniciate da un prologo (1,1-8) e da un epilogo (22,6-20): la prima parte è profetica, e si presenta nella veste di «lettere alle Chiese» (1,9-3,22), mentre la seconda è la sezione più strettamente apocalittica (4,1-22,5). Dopo queste sette lettere, che potremmo definire “pastorali”, cala il sipario dell’immediatamente comprensibile.. e si apre quello simbolico. Ma a chi si rivolge l’Apocalisse? I suoi destinatari, considerata l’allegoria, la simbologia e gli enigmi utilizzati, sono anzitutto degli iniziati. L’iniziazione, in ogni società, segna il passaggio – di un individuo o di un gruppo – da una condizione di vita ad un’altra, di solito attraverso tre momenti: la separazione dal “mondo” precedente; la prova, durante la quale l’iniziando deve mostrare la propria capacità di resistenza; infine l’aggregazione, fase che costituisce un vero e proprio rito d’investitura. L’autore indirizza il suo scritto esplicitamente alle «sette Chiese di Asia», sette comunità cristiane facenti parte di una provincia che aveva come metropoli di riferimento Efeso. Curioso il fatto che, nel rivolgersi a queste comunità, “Giovanni” segua un percorso che va da questa metropoli a Laodicea, ovvero da ovest a est. Ad ogni modo, simboleggiando il numero sette la pienezza, possiamo ipotizzare che in realtà la sua missiva sia rivolta all’intera Chiesa, che in questo momento storico è vittima di una grande persecuzione, ragion per cui il testo è animato dall’antitesi tra due regni: la Chiesa e il mondo; Cristo e l’anticristo; eletti e dannati. Antitesi generate da un evento capitale: lo svelamento di Gesù Cristo nella storia umana, “ri-velazione” che mostra e realizza la promessa fatta anticamente all’umanità attraverso Abramo (Gn 12,3). Apocalisse che immagina questa promessa già compiuta nel Regno alla fine della storia, ma anticipandola nell’oggi del credente, nell’oggi che si trova a vivere ognuno di noi. Di cosa si sta parlando allora, ancora una volta, se non del senso del tempo, cioè della vita, che di tempo è “fatta”? L’Apocalisse si muove dunque nella tensione tra passato e futuro: tra quel passato caratterizzato dal contesto storico, culturale e religioso in cui il libro è stato redatto, e quel futuro in cui tutto sarà compiuto, passando però da questo presente, caratterizzato tra le altre cose dalla lotta e dalla sofferenza. È come se dicesse ad ognuno di noi: “alza il velo, guarda come stanno le cose e scegli da che parte stare: vuoi distruggere l’opera di Dio o cantare le lodi dell’Agnello?”. Ma tra terrore e speranza, è quest’ultima che più caratterizza il testo, perché alla fine c’è la Gerusalemme celeste! Interessante il fatto che l’eclettico pittore spagnolo Salvador Dalì abbia definito l’Apocalisse “l’alfabeto della speranza”: i suoi 22 capitoli infatti, rimandano idealmente all’alfabeto ebraico, composto appunto da 22 lettere. Detto altrimenti, il Regno di Dio è già arrivato, e noi ne attendiamo la manifestazione, ma di fronte all’evento Gesù Cristo gli esseri umani si dividono in due categorie: chi lo riconosce e chi gli si oppone e resiste, esplicitamente o meno. Il libro – ultimo dell’intera Bibbia, interpretabile infondo come un grande dialogo d’amore tra Dio e l’umanità, tra lo Sposo e la sposa – si chiude non a caso con un’invocazione che è il coronamento delle Scritture: «(Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”).. Vieni, Signore Gesù» (22,17.20), accostabile all’antica formula aramaica in uso presso la liturgia eucaristica primitiva, “Maranà tha”, la quale si può intendere sia come invocazione («Signore, vieni!»), sia come confessione (Maran athà, «il Signore è venuto!»). Questo scritto è allora liturgico perché è in primis nel culto, anche se non solo, che ci è dato di incontrare il Risorto. È nell’Eucarestia, potremmo aggiungere, che sperimentiamo in sommo grado quel «già e non ancora» di cui parla il teologo luterano francese Oscar Cullmann. «Già e non ancora» che nel rito è reso possibile dal simbolo. Ma cos’è il simbolo? Dal greco symbàllein, “gettare insieme”, è formato da due parti, la prima delle quali, cadendo sotto i nostri sensi, è capace di rimandarci alla seconda, che invece non vediamo, né tocchiamo, né sentiamo, e così via.. Se è vero che conosciamo la realtà attraverso i cinque sensi, è altrettanto vero che essa li eccede. Non a caso il filosofo tedesco Ernst Cassirer ha definito l’uomo come «animale simbolico», e il simbolo come «organo necessario ed essenziale (del pensiero)». Ci sia permessa la brutalità della provocazione, ma, per rimanere in ambito liturgico e celebrativo: cos’altro sarebbe ad esempio l’altare – senza la capacità umana di simbolizzare – se non un “tavolo”?! O cosa sarebbe il tabernacolo, se non una custodia metallica contenente del pane non lievitato?! Invece, il credente si relaziona ad essi come ad altro.. Insomma, con il simbolo sta o cade tutto. Vien da chiedersi pertanto quale uso improprio facciamo oggi di questo vocabolo, dato che lo utilizziamo quale sinonimo di “fittizio, apparente, non reale”, mentre “simbolico” – stando a quanto finora considerato – significa “più vero del vero”! Ma torniamo all’Apocalisse e alla ricchissima simbologia di cui si serve: utilizza infatti quella cromatica (si pensi all’importanza del bianco); geometrica (con cerchio e quadrato su tutti); onirica (legata al sogno); animale (con la vasta gamma del terrificante bestiario); cosmica (che si avvale di arcobaleni e astri che battagliano tra loro); sociale (che contrappone Babilonia “la prostituta”, simbolo della Roma imperiale, alla sposa pura); e, ultima ma non ultima, quella numerica (il principio settenario ritma l’intero testo!), che si avvale della celebre “gematria”, quell’aritmetica mistica che sta alla base del 666 della bestia. Apocalisse, scritto tra l’altro in un greco che mischia una forma raffinata ad una più grezza e rude, è quindi un libro tutto da de-cifrare e con-templare; ma contemplare deriva dal latino tĕmplu(m), originariamente una delle quattro parti nelle quali era idealmente diviso il cielo e corrispondentemente sul terreno, da cui gli àuguri – antichi sacerdoti romani – raccoglievano e interpretavano i presagi. Da questo concetto si è passati quindi al terreno consacrato agli dei e all’edificio in loro onore. In altre parole, contemplare significa vedere un pezzo di cielo in terra, nel nostro caso cogliervi il futuro, scoprendo che è già iniziato..
Recita
Cristian Messina
Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri