Rut: Introduzione



Introduzione al Libro di Rut
Rut è un vero gioiello della letteratura biblica e della prosa ebraica, tanto da far dire al biblista Ravasi che «se si volesse fare un corso di ebraico, dopo i primi percorsi necessari di grammatica e di sintassi.. si dovrebbe, senza esitazione scegliere la prosa del libro di Rut: breve ed essenziale». Stimola insomma il lato narrativo del testo biblico, aspetto troppo spesso sottovalutato nel nostro approccio alla Scrittura, il più delle volte moraleggiante. Redatto da un autore anonimo intorno al V secolo a.C., quindi dopo l’esilio, racconta una storia semplice quanto edificante: Elimèlec, residente a Betlemme, parte con la moglie Noemi e i suoi due figli, Maclon e Chilion, diretto a Moab (la terra dei figli di Lot, nipote di Abramo) dove, contrariamente a quanto prescriveva la legge di Mosè, questi ultimi sposano due donne del paese. Entrambi però muoiono senza lasciare posterità alle due donne. Ormai vedova e anziana, Noemi decide di tornare a Betlemme, ma una delle sue nuore, Rut, decide di seguirla, e non vuole saperne ragioni. Giunte a Canaan le due incontrano Booz, loro lontano parente, che prende “sotto le sue ali” la giovane straniera decidendo di sposarla: dalle nozze nascerà Obed, colui che diventerà il padre di Iesse, dunque il nonno del re Davide. Tra le tematiche importanti veicolate dal libro ci sono dunque l’amore familiare, quello che i greci antichi chiamavano storgé, l’amore di appartenenza, fra consanguinei, e quella del go’el, termine ebraico che indica il “riscattatore” o, nel caso sia riferito a Dio, il “redentore”, quel parente più prossimo cui spettava di farsi carico di colui che era nel bisogno, in questo caso specifico l’assicurare la prole alla vedova. Da tale norma discenderà, in forma più ridotta, quella del levirato, dal latino levir, “cognato”. Questo libro, che la tradizione ebraica colloca tra i ketubîm, “gli Scritti” (che noi chiamiamo “libri sapienziali”), viene letto dalla stessa durante la festa di Pentecoste (Shavu’ot), probabilmente perché gli episodi si svolgono nel periodo della mietitura. Rut fa parte inoltre, assieme al Cantico dei Cantici, Qohelet, Lamentazioni ed Ester delle celebri megillôt, i cinque “rotoli” della liturgia sinagogale, messi in parallelo ai cinque “astucci”, ovvero al Pentateuco. La tradizione cattolica lo inserisce tuttavia dopo il libro dei Giudici, per via dell’ambientazione suggerita già nel suo incipit: «Al tempo in cui governavano i Giudici, ci fu una carestia nella terra d’Israele..». Una tecnica narrativa molto utilizzata dal testo è quella dei cosiddetti “nomi parlanti”, attraverso i quali l’autore gioca simbolicamente: Elimèlec (“il mio Dio è re”), Noemi (“mia graziosa, mia dolcezza”), Mara (“amara, amareggiata”), Orpa (“nuca”, nel senso di “colei che volge il dorso”), Rut (“amica” o “ristorata”), Booz (“forza in lui”), Obed (“servitore”, sottinteso “del Signore”), Maclon (“malato debole, malattia”) e Chilion (“sfinito, fragilità”). Una tecnica utilizzata non solo nella Bibbia, ma anche da altri autori, ad esempio Joanne Rowling, celebre autrice della saga di Harry Potter che, a dispetto delle apparenze, parla in primis della morte, o meglio dell’elaborazione del lutto, chiave di lettura decifrabile anche e soprattutto attraverso i già citati “nomi parlanti”. Tornando a Rut, il “volume” si struttura in tre parti: l’introduzione (1,1-5), in cui si narra la già citata emigrazione da Betlemme a Moab da parte di Elimèlec e Noemi; il corpo del testo (1,6-4,12), che racconta come Rut diventi parte del popolo d’Israele; e il finale (4,13-22), un vero e proprio anticlimax (“gradazione discendente”), cioè quella figura retorica che consiste più o meno in un elenco di termini via via sempre più negativi, in pratica una caduta di stile, quasi un intoppo. Nel nostro caso l’anticlimax è infatti rappresentato da una genealogia, che va – almeno apparentemente – a rovinare il bello stile adottato dal testo fino a quel momento. Ma perché? La risposta consiste nel metterla in parallelo con un’altra genealogia, ben più famosa. Se il libro di Rut si conclude con queste parole: «..Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide», il Vangelo di Matteo (1,5-6) si apre con le medesime: «Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide», catena che terminerà con Gesù. Il finale di Rut rappresenta allora il vero climax, il suo significato ultimo e teologico: la “storia” del nostro Redentore è tessuta da un filo rosso che non teme di passare non solo da una donna (e sappiamo bene quanto la Bibbia e l’Antico Testamento nello specifico, emerga in un con-testo culturale e antropologico decisamente maschilista), ma da una donna straniera! La vicenda di Rut anticipa in tal modo quel messaggio di salvezza, proclamato da Gesù, che sarà rivolto a tutti, non solo ad Israele. 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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