Giobbe: Introduzione



Introduzione al libro di Giobbe
Impropriamente considerato dalla tradizione come icona dell’uomo paziente, in realtà Giobbe – nome che potrebbe significare “osteggiato” o “(colui) che sopporta le avversità” – è invece emblema dell’uomo alla ricerca della propria fede e della posizione che ognuno è chiamato ad assumere, senza scorciatoie né facili risposte, di fronte a Dio. Per comprenderlo, però, è necessario ripercorrere quel gioiello della letteratura di ogni tempo che ce lo narra. Occorre anzitutto dire che questo libro biblico, inserito tra le opere sapienziali, sfugge ad ogni classificazione letteraria: è certo caratterizzato dal pathos del dramma, dal tono della lamentazione, dal linguaggio forense, ma da nessuno di questi si lascia esaurire. L’autore, anonimo, ha saputo magistralmente dare voce non a un uomo, bensì ad un tempo dell’anima. «Spiegare Giobbe – per dirla con la celebre affermazione di san Girolamo – è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena, più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano». Se la storia ce lo presenta come “uno che sopporta”, “il sofferente”, “colui che ha pazienza” e via dicendo, in realtà ci troviamo davanti ad un uomo che patisce e protesta! Osservando attentamente la struttura del testo notiamo che è divisibile in cinque parti: ad un prologo in prosa (1,1-2,13) segue un dialogo in poesia (3,1-31,40); quindi una serie di discorsi ancora in poesia (32,1-37,24), seguiti dal dialogo tra il Signore e Giobbe (38,1-42,6); infine un epilogo in prosa (42,7-17), in cui il protagonista recupera salute, ricchezze, reputazione e altri figli. Nel prologo si parla di Sàtana, che non indica però il diavolo, è infatti un nome comune, che in ebraico indica un angelo del Signore, sorta di pubblico ministero (significa infatti “accusatore”) della corte celeste, la cui funzione è difendere le ragioni di Dio. E questo satan chiede infatti a Dio le ragioni della presunta fede dell’imputato di turno: «forse che Giobbe teme Dio per nulla?», accusandolo quindi di pensare al proprio tornaconto. I teologi direbbero che lo accusa di avere una fede economica. Il Signore accetta la sfida del satan, così, provato nella carne e isolato socialmente, Giobbe è spinto perfino dalla moglie a rigettare un Dio come questo («Maledici Dio e crepa» gli dice infatti nella traduzione letterale!). A questo punto subentrano i tre amici, tipici saggi dell’Antico Oriente: Elifaz, Bildad e Zofar. Il primo è un esperto in letteratura profetica, il secondo in quella giuridica sacra, il terzo infine in campo biblico sapienziale. Ma a Giobbe le tesi sul dolore dei tre teologi – che chiama «medici da strapazzo» (13,4) – risultano inaccettabili: spiegazioni di seconda mano, un inutile narcotico spirituale! I tre “amici” sono in sintesi figura di tutti coloro che, nel momento della prova, vengono a propinarci soluzioni puramente teoriche e bigotte che, forse, ci mostrano un volto di Dio ancor più deformato.. Al dialogo poetico con i tre ci si aspetterebbe subentrasse la risposta di Dio, invece ecco un personaggio inaspettato e “fuori luogo”: Eliu, secondo il quale il dolore sarebbe un grande lavacro purificatorio, uno strumento capace di liberare dal male. Per buona parte dei biblisti questa intrusione di Eliu va a destabilizzare l’architettura del racconto: per alcuni Giobbe è un’opera volutamente incompiuta (come la celebre Pietà Rondanini di Michelangelo); per altri siamo davanti ad un testo work in progress, opera alla quale hanno partecipato più mani; per altri ancora l’inserimento di Eliu evidenzia una censura: Giobbe avrebbe adottato in questo punto un linguaggio eccessivamente provocatorio nei confronti di Dio, bestemmie che non sarebbero potute rimanere nel testo. Ma cos’ha da dirci davvero Giobbe? Come possiamo giungere alla sua conclusione, in cui arriva ad affermare, parlando di Dio: «Quand’anche egli mi uccidesse io continuerò a credere in lui» (affermazione cara a santa Teresina)? Il Giobbe paziente, lo abbiamo già sottolineato, è secondario, egli è in primis il ribelle, l’uomo che patisce e s’arrabbia con Dio e con gli uomini, incapaci di offrirgli una spiegazione al grande tema del dolore, considerato da alcuni come occasione simbolica per elaborare la vita, mentre altri propongono la teoria della retribuzione, quella propinata dai tre amici: “se soffri è perché hai peccato”. Ma la vita non ci dice forse che a soffrire sono anche e spesso i “buoni”? E allora? Un’interessante chiave di lettura ci è offerto dal termine ebraico tiqwâ, che significa allo stesso tempo “filo” e “speranza”: «i miei giorni.. svaniscono senza più tiqwâ» dice Giobbe (7,6). Qual è il filo che conduce la nostra vita? E qual è la nostra speranza? (che don Tonino Bello traduceva con “continuare ad aver fede nonostante l’evidenza”). Se talvolta Dio ci appare come il “grande avversario” della nostra esistenza (Giobbe infatti gli fa causa), questo fa parte del cammino. Nella bestemmia non c’è forse un grido rivolto a lui? Nel linguaggio biblico “parlare” equivale a scoprire il senso, parola che dice “sapore”, “significato”, ma anche e soprattutto “direzione” e “mèta”. E qual è la mia? Solo Dio può dirmelo, a patto però che sia disposto a confrontarmi davvero con lui, a lottarci come Giacobbe, senza mai accontentarmi delle risposte preconfezionate e a buon mercato..       

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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