Se i terremoti continuassero a infliggere ferite alle nostre chiese, cappelle, santuari, pievi di campagna, tra un secolo o due l’Italia potrebbe rischiare di essere famosa non più per il suo famoso patrimonio artistico (l’80% si dice di quello mondiale), ma per le sue brutte chiese moderne: quelle costruite negli ultimi 20, 30, 50 anni. Chiese simili a garage o a grandi magazzini, secondo le parole di un autorevole esperto, o talvolta anche belle, ma espressione della soggettività di qualche archi-star.
Non è solo in questione la “bruttezza”, che come la “bellezza”, è di difficile definizione. Certo è che nell’architettura di una chiesa, vista da fuori o da dentro, la bellezza non può essere soggettiva, ma espressione della misteriosa relazione tra visibile e invisibile.
E’ che, brutte o belle, spesso le chiese moderne non sono adeguate a ciò che vogliono rappresentare o/e che avviene al loro interno: insomma, mostrano un divorzio tra architettura e liturgia, tra forma e contenuto che testimonia la lacerazione che si è consumata tra cultura e teologia, tra conoscenza e capacità di leggere i simboli.
Con Flaminia Morandi ne parlano Goffredo Boselli, liturgista, organizzatore del convegno annuale "Architettura e Liturgia" del Monastero di Bose, il professor Crispino Valenziano, liturgista e padre Marko Ivan Rupnik, direttore dell’Atelier del Centro Aletti, autore di famosi mosaici nelle chiese di tutto il mondo, tra cui l’interno del Santuario della SS. Trinità a Fatima e la Cripta della Chiesa inferiore di San padre Pio a San Giovanni Rotondo.
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Nella immagine la Chiesa di San Paolo Apostolo a Foligno (PG)