Il Libro del Qoelet

«Se una persona non vive qualche volta il “vuoto” dentro di sé, sbarazzandosi da tutto il ciarpame: ideologie cadùche, soluzioni di seconda mano, predichette prese così, tanto per mettere in pace la coscienza, se una persona non ha questo coraggio, come potrà mai lasciare spazio ad una irruzione di Dio totalmente nuova e diversa?».
Con queste parole il biblista Gianfranco Ravasi esortava i suoi ascoltatori negli anni ’80, parlando del libro del Qoèlet, chiamato dalla tradizione anche Ecclesiaste... ma perché?

Qoèlet, che scrive probabilmente tra il IV e il III secolo a.C., anzitutto non è un nome proprio ma uno pseudonimo, legato a una funzione ufficiale, basata su una radice ebraica che rimanda al verbo qahal, “congregare”, “riunire in assemblea”, termine che il greco traduce con ekklêsia, “chiesa”, da cui Ecclesiaste, “colui che presiede l’assemblea”, tradotto da san Girolamo con concionator e da Lutero con prediger, “predicatore”.

Perché allora il libro inizia con «Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme» (1,1), mentre l’epilogo lo ritrae come uno dei tanti saggi d’Israele (cfr. 12,9-14)?
Perché l’autore sconosciuto, forse un letterato aristocratico, sceglie Salomone, “il sapiente” biblico per eccellenza, e come nel teatro greco, dà voce a questa maschera, a indicare che i problemi dell’attore/saggio che parla (in tal caso Salomone) sono in realtà quelli del pubblico a cui si rivolge, ossia quelli di ognuno di noi.

Potremmo a questo punto chiederci di cosa parla questo libro, classificabile dal punto di vista letterario come “diario”, o “diatriba”, o “testamento regale”.
La redazione del testo avvenne probabilmente in Giudea in un periodo post-esilico, tra il IV e il III secolo a.C., in un’epoca in cui l’ebraico biblico iniziava a convivere e a fondersi linguisticamente con l’aramaico, molto diffuso nell’area. Di conseguenza il Qoèlet riflette questa situazione linguistica ibrida: è essenzialmente un testo ebraico ma con molte parole e costruzioni prese dall’aramaico.

L’autore espone una serie di riflessioni su vari temi, unificati tra loro da alcune parole-chiave, collocate in modo strategico dall’inizio alla fine: su tutte “vanità”, che compare 38 volte, in ebraico havel (dalla cui radice deriverebbe il nome Abele), letteralmente “soffio, alito, vapore, fumo”, la cui simbologia rimanda sia alla nebbia (di tipo diverso da quella ordinaria), sia alla rugiada (come quella citata nel Salmo 133), sia alla schiuma lasciata dalla nave dopo il passaggio: tutte cose che svaniscono.

Altra locuzione ricorrente è «sotto il sole», che compare anch’essa molte volte.
La tematica senza dubbio più importante è quella del tempo, che può trasformarsi in storia solo a condizione che abbia senso. Vocabolo da intendersi nella triplice accezione di significato, sapore e soprattutto meta e direzione.

Il libro mostra persone tutte impegnate a riempire “di cose” il loro tempo, descritto da sette simboli: la generazione della prole (1,4); il sole (1,5); il vento, traducibile anche come “spirito” (1,6); i fiumi (1,7); «tutte le cose (in travaglio)» (1,8a); l’occhio e l’orecchio (1,8b-9), organi legati al desiderio di conoscere; infine la memoria, capace di mantenere vivi nel ricordo (1,9-10).

Ciò che colpisce non sono solo le tematiche, ma anche il tono polemico, critico, anticonformista e dissacrante dell’autore, che si scaglia contro ogni pia illusione di sacralizzare la realtà, perfino contro il culto (perché “Dio ascolta e tace”). Il ritornello è che «tutto è vanità», cioè vuoto, nulla ha senso, tutto ritorna ciclicamente senza vera novità.

Eppure la tradizione ebraica presenta questo libro durante Sukkot, la festa delle Capanne, un momento gioioso che ricorda il cammino nel deserto.

Qoèlet mostra un’intelligenza spesso dannosa per i più, perché “capire è un po’ soffrire”: «beato chi non capisce niente!» si sente ripetere fin da bambini. La sua figura è quella di un pessimista che si definisce però “realista”.

Infine, come osservava san Gregorio Magno, Qoèlet impersona il peggio dell’essere umano proprio per combattere quell’atteggiamento: un’accusa che non è certo superficiale, ma che coglie la forza del messaggio.
Se abbiamo il coraggio di accettare questa critica distruttiva (e quindi di stare sul pezzo), capiamo che la sua forza sta nel non smettere mai di cercare: come diceva Seneca, «non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili».

Ciò tradotto significa: accettiamo di uscire dalla nostra zona di comfort esistenziale e spirituale? Abbiamo il coraggio di dialogare con chi non crede più? Ci accontentiamo delle risposte facili o, come dice Julien Green, «finché si è inquieti, si può stare tranquilli»?
Accettiamo la sfida di “questa terra”, tra condizione angelica e quella bestiale? Qual è il nostro rapporto con il silenzio di Dio? E quando Dio tace?

Infine, questo libro ci provoca con l’amara constatazione di Faust (nel dramma di Goethe): «Ahimè, ho studiato filosofia, giurisprudenza, medicina e teologia, e ne so quanto prima!». A chi può rispondere questa affermazione? Forse a chi, come Teresa d’Avila, ha vissuto la sua “notte oscura”.
Il teologo Brunetto Salvarani conclude così: «Solo chi prende sul serio la responsabilità della vita, sapendo che, perdendola, si perde tutto, potrà accogliere l’invito radicale di Gesù e porsi alla sua sequela».

 

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